Verso la nuova legge. Un biotestamento in difesa del malati

Il Giornale
Fabrizio Cicchitto

 La proposta di legge sul cosiddetto testamento biologico non nasce dall’ossessione di volere legiferare ogni aspetto della vita privata o dall’intenzione di intromettersi nei rapporti tra il paziente, i propri familiari e il medico curante. La sua origine deriva da alcuni aspetti peculiari del «caso italiano», caratterizzato da un pangiustizialismo che pervade sia i comportamenti della magistratura sia, talora, anche i comportamenti dei privati. Il legislatore è stato, pertanto, costretto a intervenire, anche in forza di richiami espliciti mossi al suo indirizzo dagli stessi giudici costituzionali. Non c’è dubbio, infatti, che fino al caso Englaro tutta la materia è stata regolata sulla base del buon senso e del senso di umanità costituito dai rapporti interpersonali fra il malato, il medico, i familiari. Invece il signor Englaro si rivolse, originariamente, al tribunale di Lecco per chiedere di poter rifiutare l’alimentazione artificiale alla figlia, mentre la ragazza era in stato di incoscienza, ma respirava autonomamente (Eluana doveva, infatti, essere alimentata con un sondino nasogastrico e idratata e non era legata a nessuna macchina). I giudici dissero di no. Il signor Englaro si rivolse anche al presidente Ciampi. Nel 2003 e nel 2006 Tribunale e Corte d’Appello respinsero ancora le istanze del padre di far morire Eluana. La Corte di Cassazione diede ragione ai giudici della Corte d`Appello, stabilendo che il genitore non ha il potere di provocare l’interruzione dell’alimentazione artificiale, essendo necessaria la nomina di un curatore speciale. Nella stessa sentenza, però, il signor Englaro colse uno spiraglio, che si affrettò subito a utilizzare: visi riconosceva, infatti, che la sua richiesta non poteva essere accolta perché, tra l’altro, mancavano «specifiche risultanze» sulle reali volontà della ragazza. Nel 2007, la Cassazione sostenne che il giudice può auto rizzare l’interruzione in presenza di due circostanze concorrenti: lo stato vegetativo irreversibile del paziente e l’accertamento che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento. Inoltre le recenti conquiste scientifiche e le evidenze cliniche oggi non permettono con certezza di ritenere irreversibile la condizione di stato vegetativo. Il signor Englaro, nel luglio 2008, fu così autorizzato, grazie all’intervento della Cassazione, a sospendere l’alimentazione. La Corte di Cassazione diede, così, un altro esempio dell’interventismo giudiziario che caratterizza la storia costituzionale di questo Paese nell’ultimo ventennio. La Corte, infatti, definì «trattamento sanitario» i processi di idratazione. Una questione, come si sa, quantomeno controversa. Si pensi al caso degli alimenti per i neonati, che sono tecnicamente configurabili come «terapia». In questa veste essi vennero originariamente accolti dalla comunità scientifica. Ma oggi gli alimenti per neonati sono considerati a tutti gli effetti come «alimentazione». Ora, se gli alimenti per neonati sono da considerarsi alimentazioni, non è quantomeno discutibile che un giudice, che dovrebbe utilizzare criteri interpretativi ispirati sia al metodo analogico sia al principio di ragionevolezza, dia per scontato che l’alimentazione di una persona viva, ma in stato di incoscienza, sia da considerarsi puramente e semplicemente «trattamento sanitario»? Né ci è d’aiuto la giurisprudenza internazionale. Accanto ai casi come quello «Bland», nel quale i giudici della House of Lords ritennero che l’alimentazione/idratazione in pazienti senza possibilità di riprendere coscienza fosse «futile», ci sono casi come quello di Nancy Cruzan, dove la Corte suprema del Missouri si mostrò molto incerta sulla sospensione di idratazione e alimentazione artificiale. Insomma, la questione è drammaticamente complessa. Ma il giudice italiano si comportò con criteri ultradecisionistici. Inoltre, la Corte stabilì da sé nuove forme, non previste dal legislatore, di ricostruzione della volontà del paziente in stato vegetativo. L’effettiva volontà della Englaro fu «ricostruita» sulla base di «indizi» del tutto inattendibili operando una forzatura inaccettabile. Anche attraverso questa forzatura, si espropriava il Parlamento delle sue prerogative, in quanto l’articolo 70 della Costituzione esclude funzioni suppletive da parte di altri poteri dello Stato, se non nei casi stabiliti dalla Costituzione stessa (artt. 76 e 77 Cost.). La Camera e il Senato sollevarono, dunque, un conflitto di attribuzione contro la Cassazione. Nel respingere il ricorso per insussistenza di «requisiti oggettivi», la Corte costituzionale sottolineava, a sua volta, come il Parlamento fosse entrato nel merito dei criteri adoperati dai giudici nella selezione delle norme e della giurisprudenza, ricordando al legislatore che esso poteva «in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti». A questo punto il Parlamento non poteva non intervenire attraverso una legge sulle dichiarazioni anticipate di volontà. Tra le righe della sentenza della Corte costituzionale, si può leggere, con chiarezza, una minaccia: o il Parlamento interviene, o ci penseranno i giudici a decidere, di volta in volta. Non si poteva permettere il Far West giudiziario in una questione tanto delicata. L’attuale progetto di legge è frutto di un complesso e delicato lavoro di equilibrio, che ha cercato di conciliare tra loro valori potenzialmente in conflitto, quali, ad esempio, la sacralità della vita, da una parte, il diritto a rifiutare le cure da parte dell’ammalato, dall’altra. La legge muove, storicamente, dal problema delle dichiarazioni anticipate di volontà, ma, come si legge nel titolo, essa è dedicata, sostanzialmente, all’alleanza terapeutica tra medico e paziente. Sono stati, infatti, molti i suggerimenti, provenienti sia dall’opposizione sia da esponenti del mondo della cultura e della scienza, accolti nel testo della Camera che modifica alcuni aspetti di quello approvato al Senato. Di queste modifiche non si è dato per niente atto nel dibattito di questi giorni. È da rilevare che, nel corso dell’iter, c’è stato un ampliamento dello spettro dei soggetti titolati ad accedere alle Dichiarazioni Anticipate di Testamento (Dat). La legge, infatti, non riguarda solo i soggetti in stato vegetativo permanente e persistente, ma qualunque soggetto che «si trovi nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze e, per questo motivo, di assumere le decisioni che lo riguardano». C’è stata, inoltre, un’attenuazione del divieto di interruzione di idratazione e alimentazione. Per quel che riguarda i «contenuti» e i «limiti» della Dat, si prevede la sospensione di alimentazione e idratazione nel caso in cui «le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo». S’è tenuto conto, qui, del fatto che l’organismo può non essere in grado di assimilare le sostanze nutritive. In effetti, in tal caso, idratazione e nutrizione si configurerebbero non come forme di sostentamento, ma come «terapie», anzi come forme di «accanimento terapeutico». Per altro verso non si può fare a meno di ricordare, in un caso analogo, avvenuto negli Usa, quello di Terry Schiavo, che fu evidente chela sospensione della idratazione e della somministrazione del cibo possono provocare in chi ne è oggetto delle terribili sofferenze quella volta prolungatesi nel tempo. A loro volta l’esistenza di queste sofferenze può determinare una sorta di reazione di rigetto rispetto all’adozione di questa procedura anche in chi ha una posizione culturale e una coscienza laiche. Nel testo del disegno di legge viene rafforzato il divieto di qualsiasi forma di eutanasia. In generale, nella proposta di legge vengono ribaditi i principi dell’inviolabilità e indisponibilità dei diritti fondamentali e, secondo una prospettiva personalistico -cristiana e kantiana al tempo stesso, dell’uomo come «fine» e non come «mezzo», il divieto di «ogni forma di eutanasia», i doveri del medico e i diritti del paziente nonché il divieto dell’accanimento terapeutico. In coerenza a ciò, si precisa che le decisioni relative all’attuazione del principio del consenso informato vanno prese perla salvaguardia, oltre che della «salute», anche della «vita» del paziente. Il «diritto a morire» non esiste in nessun Paese civile, nemmeno laddove (Olanda, Belgio, Svizzera e gli Stati americani di Washington e dell’Oregon) la legislazione è particolarmente favorevole all’autodeterminazione del paziente. È vero invece che in Italia, a differenza di quanto accade in quei Paesi, è prevista la punibilità per i medici che, in qualunque modo, pongano effettivamente fine alla vita del paziente. Questa punibilità ha un saldo fondamento costituzionale nell’articolo 32 della Costituzione. Meglio sarebbe stato, senza alcun dubbio, non legiferare, tenere lo Stato fuori da una questione che riguardala parte più intima della coscienza umana e degli affetti personali. Ma legiferare, a un certo punto, è diventato inevitabile. II Parlamento non ha potuto tirarsi indietro. Per questo, s’è cercato, nei limiti delle umane possibilità, di trovare una soluzione equilibrata. Non si poteva trovare una soluzione che soddisfacesse al massimo tutte le istanze in gioco. S’è dovuto adottare un paradigma il cui uso è molto complesso, ma, in casi come questi, quanto mai necessario. È il paradigma, da alcuni studiosi chiamato, della ricerca di una «deriva entropica». Si tratta, in pratica, di cercare di non porre seriamente in pericolo nessuno dei beni costituzionali chiamati in causa. Di più non si poteva e non si può fare. L’alternativa è il vuoto giuridico. Ora, dopo gli interventi della magistratura e il richiamo della Corte costituzionale, il sistema non se lo può più permettere. Non c’è dubbio che il disegno di legge, anche nella sofferta elaborazione di alcuni dei suoi aspetti, è percorso dall’intenzione di mantenere ferma un’alleanza politico-culturale fra laici e cattolici che, a nostro avviso, è decisivo nell’assicurare la qualità positiva della dialettica politica italiana respingendo le posizioni giustizialiste, quelle integraliste e quelle caratterizzate da un esplicito laicismo anticlericale. Per quello che ci riguarda personalmente, partendo da una posizione laica del tutto autonoma e libera di volta in volta nella valutazione dei contenuti legislativi – che nel passato ci ha portato a differenziarci nettamente rispetto ad aspetti importanti della legge sulla fecondazione assistita -, abbiamo ritenuto di contribuire ad un’intesa positiva fra laici e cattolici, al di fuori di ogni contrapposizione ideologica.  




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