Quando è sceso dal barcone sulle coste italiane, stremato per la traversata, Vahid Kian Motlagh ha tirato un sospiro profondo. Era nella liberale Europa ormai, lontano da Abadan, lontano dalla repubblica degli ayatollah, dove l’omosessualità porta alla pena capitale. A 32 anni, senza soldi in tasca, doveva ricominciare daccapo, ma era una sua scelta. Non immaginava che le leggi europee sull’immigrazione alla fine lo avrebbero portato in un centro per clandestini, vicino all’aeroporto Saint Exupery di Lione, a poche ore di volo dalla gru su cui i mullah impiccano quelli come lui. Vahid aveva avuto la certezza di essere omosessuale il giorno del suo 23esimo compleanno,
dopo una sera al cinema Taj, ad Abadan. Dietro il locale, c’era un giardinetto. Lì, racconta Vahid, «si riunivano oppositori e diversi». Li un coetaneo parlava apertamente della sua omosessualità con altri ragazzi. «Pensai che forse, dopo tutto, era possibile ammettere la propria identità. In famiglia non ne avevamo mai accennato, di sesso non si parlava mai». Tornando a casa, però, un gruppo di giovinastri l’aveva assalito, tirandolo per la giacca: «Non ti vergogni a passare il tempo con i finocchi?». Forse proprio l’aggressione lo aveva spinto a riconoscere, a se stesso prima di tutti, che le sue scelte non erano come quelle degli altri. Quando aveva preso coraggio, aveva cominciato a frequentare il parco Jamshidieh, dove aveva fatto nuove amicizie. Fino al giorno in cui aveva osservato «persone ben vestite» scrutare lui e un ragazzo che si tenevano per mano. Nei paesi islamici è abbastanza comune, fra amici, e non è certo un segno di omosessualità. Però qualcuno aveva sussurrato qualcosa alla polizia. E pochi giorni dopo, Vahid aveva ricevuto una telefonata da casa: «Mamma, che succede?».
«E venuta la polizia, ti cercano. Figlio mio, scappa!». Il resto è la storia di una fuga a piedi, di un passaggio in Turchia, di una traversata sul barcone dei clandestini. Poi l’arrivo a Roma, le amicizie. L’incontro con il giovane belga Philippe, al Coming Out di via San Giovanni in Laterano, uno dei locali simbolo della comunità gay romana. La decisione di andare a vivere insieme, la scelta di partire per il Belgio, per sposarsi. E poi quel maledetto controllo dei documenti. Philippe che va libero, Vahid che resta dietro i reticolati del centro clandestini, il giudice che respinge la richiesta di libertà provvisoria, i documenti per l’asilo politico, l’aiuto dei gruppi per i diritti umani, come l’EveryOne. E l’incubo: i Pasdaran, la giustizia islamica. L’accusa di lavat, sodomia, e di essere mohareb, cioè "nemico di Dio". La gru. Mahmoud Ahmadinejad lo aveva proclamato con fierezza a Roma, durante il vertice Fao: in Iran non ci sono gay. Nei giorni scorsi però il presidente iraniano ha accusato gli avversari politici di «voler riconoscere ufficialmente ladri, omosessuali e sacchi di letame». Come dire che i gay ci sono, ma clandestini. Quella parola che segna tutta la vita di Vahid: ieri omosessuale clandestino in Iran, oggi immigrato clandestino in Europa. La dignità di chiamarsi essere umano, forse, domani.