La vita è degna di essere vissuta ma in condizioni ritenute dignitose da chi se la porta addosso. La domanda di solito a questo punto è: ma chi stabilisce quali siano i limiti della dignità per un malato che è messo nella condizione di non potere muovere una mano, di non potere parlare con la persona amata, di non potere bere da solo un bicchiere d’acqua? La risposta logica sarebbe: il malato stesso. Ma spesso i protagonisti del dolore o della malattia, da noi, non hanno potere di decisione.
È una vecchia eredità cattolica che ci portiamo dietro da secoli: l’uomo, secondo la Chiesa, ha bisogno di una tutela morale che lo accompagni dalla culla alla bara. La tutela naturalmente poi si trasforma in controllo, religioso, culturale e psicologico. Non si crede che l’individuo abbia la possibilità di decidere in coscienza e con responsabilità del suo destino.
Oggi Piergiorgio Welby, con la sua pacifica e umile richiesta (vedi i servizi nelle Cronache), ci mette drammaticamente davanti a un tema che ci tocca tutti da vicino: quali sono i confini fra la vita e la morte in tempi di accanimento terapeutico, in tempi di macchine che pompano artificialmente il sangue, soffiano meccanicamente l’ossigeno, tenendo in vita persone che in altri tempi sarebbero morte di morte naturale? Ci sono casi di individui in coma che continuano a vivere per anni e anni. Il regista spagnolo Almodóvar ne ha fatto addirittura un film: una ragazza in coma viene messa incinta da un infermiere. Lo sguardo del regista non è moralistico, non condanna né l’infermiere, né coloro che si accaniscono a tenere in vita un corpo che sta più di là che di qua. Mapure i segnali della vita ci sono e come trascurarli? In quel caso la ragazza non ha parole e non può dire se preferisce morire o vivere alla mercè degli altri.
Nel nostro caso la persona è consapevole e forse per questo fa una strana impressione pensare di acconsentire alla sua tenace domanda di estinzione. Eppure si può immaginare che sempre di più andremo incontro a situazioni di questo genere, perché la scienza diventa ogni giorno più esperta e ardimentosa, i medici più abili e le macchine più capaci. È solo il corpo umano che non muta. O per lo meno non muta come vorrebbero i medici e le macchine dell’immortalità.Uncorpo è un corpo, con le sue miserie, le sue inettitudini, i suoi limiti e la sua profonda capacità di sofferenza. Un corpo andrebbe ascoltato oltre che curato. I medici sono ormai talmente specializzati che non riescono a vedere l’insieme della persona, intenti come sono a curare il particolare che è stato loro affidato. Può darsi che il cuore continui a pulsare, i polmoni a respirare,mala persona stia talmente male da non desiderare più restare al mondopur amandola vita, come dice Welby.
La legge italiana non prevede l’eutanasia. Non perché la società nel suo insieme abbia discusso e preso una decisione collettiva, ma per soggezione alla Chiesa che a sua volta proibisce l’eutanasia per ragioni di principio. Le ragioni di principio però sono sempre astratte e brutali, non tengono conto dei cambiamenti, dei casi specifici, delle persone singole. Accanto a Welby c’è Marco Pannella che oltre a tenergli affettuosamente compagnia chiede al Parlamento una discussione immediata su questo grande atto di libertà. Alcuni gli danno ragione, ma i tempi sono lunghi e intanto la sofferenza continua. Riusciremoancora una volta ad emanciparci da una delle tante tutele, per rendere la persona responsabile della sua vita?