Se con il biotestamento si rispetta la morte (lettera)

la Repubblica
Giulia Bongiorno

Caro direttore,

la motivazione che il premier Berlusconi adduce per giustificare l’ urgenza con cui invoca l’approvazione della legge sul testamento biologico – scongiurare il pericolo che ancora una volta i giudici usurpino la funzione del Parlamento – è rivelatrice: il suo convincimento, alimentato da vicende personali, secondo cui la magistratura abuserebbe sistematicamente dei propri poteri, gli impedisce di porsi dinanzi a una materia controversa e delicata come il testamento biologico con la serenità necessaria.
Per fugare i suoi timori basterebbe ricordare che fino a ora l’ operato dei giudici è stato in linea con le loro competenze: le soluzioni date ai casi in esame,seppur discutibili – come spesso avviene di fronte a questioni giuridiche tanto complesse – erano comunque ben motivate e in sintonia con i princìpi del nostro sistema. Ma anche tralasciando il richiamo a pericoli insussistenti, il punto è che almeno in questa materia si dovrebbe bandire la legiferazione "contro" qualcuno.

Sul tema del testamento biologico esistono diversi schieramenti di opinioni. Ai due estremi, coloro che hanno delle certezze:da una parte, quanti quelle certezze le hanno raggiunte con il sostegno della fede; dall’altra, quanti invece sono animati da uno spirito laico.

In mezzo, tutti quelli che per i motivi più diversi – sono perplessi. E ho la sensazione che tanti, dai due estremi, a volte si sentano – persino loro malgrado- slittare verso posizioni meno radicali.

Intendo dire che forse anche un credente- quale per esempio io mi sforzo di essere-potrebbe sentirsi incerto quando, come legislatore, è chiamato a esprimersi sulla disciplina giuridica da dare al momento dell’inizio della vita e a quello della morte. Quando si diventa legislatori e si ha la consapevolezza di legiferare anche per chi non crede in Dio, qualcosa si agita dentro di noi impedendoci di affidarci ciecamente ai dettami della fede. Allo stesso modo,anche lo spirito più laico può entrare in crisi e sentire la necessità di riconsiderare la propria posizione.

Di certo, i traguardi conquistati dalle nuove tecnologie e i progressi compiuti dalla ricerca scientifica hanno allargato il nostro orizzonte in maniera fino a pochi anni fa impensabile e dunque hanno contribuito a renderci più aperti al dubbio. Credo, a questo punto, che l’ atteggiamento migliore da tenere sia affrontare questa incertezza- che ci rende più disorientati,ma di certo più liberi dandole spazio e voce. Ma soprattutto,sono giunta alla conclusione che chi rispetta la vita non può non rispettare anche la morte. Perché, al pari della vita,la morte racchiude in sé qualcosa di maestosamente semplice, di solennemente naturale.

Non riesco dunque a non interrogarmi sul diritto di ognuno di conservare la propria individualità anche nel momento del trapasso: non mi sento di accantonare a priori l’ idea che,se un uomo desidera andarsene con la stessa limpida consapevolezza con cui è vissuto, dev’essere libero di farlo (purché rispetti le leggi dello Stato).E penso che solo nel caso in cui quest’uomo avesse abdicato al suo diritto di scelta qualcun altro sarebbe legittimato a scegliere per lui.

La legge in discussione si presenta in termini molto deludenti, se non preoccupanti. Il diritto al rifiuto delle cure, discendente dal più ampio diritto dell’individuo all’autodeterminazione, sembra essere stato
negletto in più parti. Il rischio,se il testo passasse in questa forma, è che le DAT – le direttive anticipate di trattamento -non potranno riguardare né l’ alimentazione né l’ idratazione forzata e non avranno
valore vincolante. E c’ è di più: a interpretare rigidamente le norme proposte, il medico, di fronte al pericolo di vita del paziente, sarebbe sempre tenuto a non dare attuazione alle DAT e a proseguire nella terapia, sia essa strettamente medica, sia essa di alimentazione e idratazione.

Il limite di questa legge è che ha del tutto perso di vista il lato umano delle vicende che pretende di regolare.
Se consideriamo l’ alimentazione e l’ idratazione forzate da un punto di vista umano, e se prendiamo come riferimento la persona che ne vuole l’ interruzione,dobbiamo ritenere che non vi siano significative distinzioni fra tali procedure di sostegno vitale e le vere e proprie cure mediche. Partiamo,per semplificare, da una persona che non si trova in stato di incapacità di intendere e di volere, ma che soffre da anni ed è immobile in un letto. Pensiamo a uno come Piergiorgio Welby. Welby era sottoposto a respirazione artificiale, ritenuta pacificamente atto medico. Ma se si fosse trovato – a parità di condizioni – sottoposto ad alimentazione e idratazione artificiali,quale sarebbe stata la differenza, per lui?

La questione su cui a mio parere dovremmo interrogarci è:per chi deve effettuare una scelta di fine-vita, essere sottoposto ad alimentazione o a idratazione artificiale oppure a cure mediche in senso stretto fa davvero differenza?
In entrambi i casi, bisognerebbe avere il diritto di opporre un rifiuto. E non si tratterebbe di consenso a un omicidio attivo volontario da parte del medico, ma di semplice rifiuto da parte del paziente di un atto esterno non desiderato.

Una legge che impedisse questa scelta, lungi dal garantire l’ individualità dell’uomo anche nel momento del trapasso, forzerebbe i cittadini a proseguire trattamenti medici anche contro la loro volontà, sia pur normalmente espressa con direttive anticipate di trattamento.
Queste DAT, in un simile quadro, non servirebbero più a nulla.
E se il diritto di autodeterminazione dell’uomo ha un senso, non è certo questa la strada da percorrere.

Il punto è che questa leggeva nella direzione opposta alle leggi che regolano il testamento biologico: è una legge contro la volontà dell’individuo, una legge che finge di voler regolare il testamento biologico per, in verità, svuotarlo di ogni contenuto.
Ecco perché quella libertà invocata sistematicamente dal premier – talora persino a sproposito – stride non poco con la sua scelta di sostenere una legge che la nega nel momento più drammatico della vita umana.