Ma l’Italia dei bambini in provetta è ancora un tabù

Claudia Arletti

L’America è lontana e se lì i figli della provetta si affratellano via internet, in Italia ferve ancora “il dibattito”. Che poi si riduce, in estrema sintesi, alla domanda accorata di marika76 sul web: “Lo dico o no alla suocerastra?”. E cioè: è il caso di spiegare a parenti e amici che si andrà all’estero per avere un bambino grazie a un ovocita o a un seme di sconosciuti, per giunta con una tecnica in Italia illegale? E poi, ammesso che la gravidanza vada a buon fine, si potrà mai dire a questo figlio qual è esattamente la sua origine?

Benché la legge 40, che vieta tassativamente la fecondazione eterologa, venga aggirata in continuazione e sia presa a martellate dai tribunali, una percentuale molto bassa di famiglie decide di raccontare ai figli la verità. Secondo alcuni studi, lo fa il 10 per cento dei genitori, secondo altri il 40, ma la sensazione degli specialisti è che il “mistero” della nascita resti tale per un pezzo, a volte per sempre. Chi ha il coraggio di parlarne sa comunque di dovere evitare l’“ora x” del disvelamento, della rivelazione epifanica: “Funziona un po’ come per le adozioni” spiega Federica Casadei, presidente del portale sull’infertilità Cenrcounbimbo.it (37 mila iscritti, duemila visitatori al giorno). “Un tempo, ai bambini adottati si taceva la verità e poi erano disastri. Oggi si spiega tutto, spesso lo vogliono i tribunali dei minori, per impedire al "non detto" di terremotare le relazioni familiari”. In Inghilterra la Donor Conceptor Network (www.dcnetwork.org, il testo in italiano si trova su Cenrcounbimbo.it) ha elaborato una guida per chi ha figli da zero anni in su. Qualche regola: mai distinguere tra “genitori” e “veri genitori”, perché il donatore merita rispetto ma non ha un ruolo genitoriale; usare un linguaggio che tenga conto dell’età dei bambini; evitare la parola “speciale” perché, “la cosa migliore che potete fare per vostro figlio è trattarlo normalmente”… Rassicura comunque leggere che, una volta che il nodo dell’origine è stato sciolto, in famiglia alla fine nessuno ci bada più, a iniziare dai bambini, presi da altre cose, da altri mondi. Studi condotti negli Usa e in Australia sottolineano l’“adeguato sviluppo socioemotivo” dei bambini nati con l’eterologa e sembrano dimostrare che “dirlo” paga: “Talvolta questi ragazzini risultano più equilibrati della norma” dice Elisa Vellani, psicologa, ricercatrice in Neuropsicoendocrinologia della riproduzione e sessualità, “come se, nati da una gravidanza così fortemente cercata, fossero stati più pensati e voluti”.

Il gioco si fa duro, però, nel caso dei genitori single e delle coppie gay. Fa scuola, in Italia, la famiglia Goretti-Giartosio, sia per la sua geografia complessa, sia per la precisa scelta di campo: diciamo tutto a tutti, e incoraggiamo tutti a farlo. E allora. Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio detto Tom, romani, hanno due bambini, Lia, cinque anni, e Andrea, due. Lia è geneticamente figlia di Tom e di una donatrice sconosciuta; Andrea, di Gianfranco e di un’altra donatrice. Sono stati partoriti in America da una terza signora, Nancy, che talora frequentano. Riepilogando: ci sono due padri (che i bambini chiamano papà), due donatrici ignote e una donna che si è prestata alla “gestazione di sostegno” (espressione che i Goretti-Giartosio preferiscono a quella di “utero in affitto”), rinunciando ai diritti su Lia e Andrea. Come se la cavano? “Ad Andrea abbiamo detto che è stato nella pancia di Nancy. Lia sa che è stata tanto desiderata e che l’abbiamo avuta grazie a Nancy e a una signora che ci ha fatto un regalo”. Però nell’atto di nascita figura un solo genitore, particolare che talora si declina in modo impietoso: “Io e Toni risultiamo "ragazzi padri" e sfondiamo le classifiche per i posti al nido o all’asilo” dice Gianfranco Goretti, “ma per prendere Lia a scuola ho una delega firmata da Tom, come le babysitter. Lo stesso accade, specularmente, con Andrea”. La scivolosissima “questione mamma” per ora la risolvono così: in famiglia c’è una sarabanda di zie, la scuola – si sa – è un mondo femminile, “e poiché non c’è stato un abbandono o un lutto, i bambini stanno bene”. Pensando al futuro, alla scuola, alle domande dei figli, i Goretti-Giartosio fanno l’unica cosa possibile davanti a un mondo sconosciuto: si tengono pronti a tutto. “All’asilo oggi Lia è una star perché ha due papà. Ma io insegno e temo già le medie. Gli adolescenti possono essere feroci: per come ti vesti, per come parli e, sì, perché hai due padri. Certo, i nostri figli ragioneranno sul maschile e sul femminile in modo meno ovvio della media. Per noi il vero fallimento sarebbe scoprire che lei sogna di diventare una velina e lui un picchiatore negli stadi, non che si interrogano sulle loro origini. Forse le donatrici ci porteranno fortuna” scherza, “sappiamo che sono impegnate nel sociale, le abbiamo scelte per questo”.

C’è chi non reputa essenziale essere espliciti. Elena Baroni, ginecologa del centro Ge.ne.ra., Roma: “Per una coppia tradizionale raccontare di avere fatto ricorso all’eterologa significa ammettere pubblicamente la sterilità. E questo è ancora un tabù. Non può esserci una regola. C’è chi tace avendo interiorizzato un "segreto" che gestisce serenamente. Per altri il percorso psicologico richiede di rivelare tutto. Certo, i pregiudizi non aiutano”. La legge 40 ha peggiorato le cose: “Vietando l’eterologa, ha rafforzato la condanna morale e il tabù, come le leggi razziali rafforzarono il razzismo” sostiene Chiara Lalli, docente di Epistemologia delle scienze umane. E poco importa se il divieto è aggirato o sbeffeggiato, se nessuno controlla i laboratori, se stamani grazie all’eterologa nei nostri ospedali sono nati decine di bambini e nessun genitore è stato perseguito e se – come dice Demetrio Neri, del Comitato nazionale di Bioetica – “è l’ennesima legge all’italiana, votata con il condono incorporato”: comunque, fa paura. È per paura che una seria professionista milanese, madre di tre gemelli nati con embriodonazione in Danimarca, dopo avere raccontato la sua storia al Venerdì ha “ritrattato”, disperata: e se poi mi portano via i bambini?

 

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