La scienza si fa il lifting

di Piero Bianucci
Torino città laboratorio. Formula logora. Però conserva qualcosa di vero. Qui Harold Kroto, premio Nobel per la chimica, pioniere delle nanotecnologie, svilupperà un suo progetto per suscitare vocazioni scientifiche precoci, in ragazzini delle scuole elementari e medie. E a Torino sta nascendo la prima iniziativa organica per aprire un dialogo permanente tra ricercatori e cittadini. Si chiama «Agorà Scienza», l’uscita in pubblico sarà a metà settembre, ci lavorano Università, Politecnico, associazioni culturali e fondazioni. Si partirà con un confronto tra scienziati ed esperti di comunicazione. Seguirà la «Notte del ricercatore»: dibattiti, teatro, musica ed esperimenti di fisica e di biologia in piazza. Una manifestazione finanziata dall’Unione Europea, che nel nostro paese assume un significato speciale: abbiamo il più basso investimento in ricerca (l’1,1 per cento del prodotto interno lordo) e il più alto tasso di conflittualità sociale intorno alle tecnologie avanzate, si tratti di cellule staminali o fecondazione assistita, energia nucleare o treni ad alta velocità, organismi modificati geneticamente, inceneritori di rifiuti o centrali elettriche. Vent’anni fa i finanziamenti alla ricerca non erano molto diversi dagli attuali. Ma la scienza godeva di una buona immagine: la scienza scopriva, inventava, produceva reddito, migliorava la qualità della vita. Oggi quell’immagine si è appannata, la conoscenza pura si confonde e contamina con le sue applicazioni. Le nuove tecnologie sono come rughe sul volto della scienza. Che cosa ha prodotto un cambiamento così forte? Forse anche la scienza ha bisogno di un lifting? Ogm, Tav, H5-N1, Bse. Già le sigle hanno un suono sinistro. La vulgata giornalistica ci marcia. Gli Ogm sono il «cibo Frankenstein», Tav diventa sinonimo di devastazione dell’ambiente, morte per amianto e radiazioni, H5-N1 – il virus dell’aviaria – è descritto come «la peste del nuovo millennio», Bse si traduce nel «morbo di mucca pazza». Massimiano Bucchi, sociologo della scienza all’Università di Trento, non crede che sia una questione di lifting. «L’immagine della scienza è ancora buona – dice -. Su 100 italiani, 57 ritengono che i suoi benefici e quelli delle tecnologie che ne derivano siano maggiori di ogni potenziale implicazione negativa. La media UE è del 52 per cento. In Francia, Gran Bretagna e Germania la fiducia nella scienza scende sotto il 50 per cento». Certo l’informazione scientifica in Italia è scarsa e scadente, anche perché quasi sempre è trattata come qualsiasi altra forma di cronaca da giornalisti generici, cosa che non avverrebbe mai per lo sport, lo spettacolo o l’economia. Ma neppure la tesi della cattiva o insufficiente informazione basta a spiegare i contrasti sempre più duri tra scienza e società. «Se bastasse un’informazione corretta e martellante – dice Bucchi – gli italiani avrebbero già smesso di fumare. L’origine della crisi va cercata nelle mutazioni avvenute nel mondo della ricerca. Da qualche decennio siamo entrati nell’era post-accademica, che riassumerei in uno slogan: Einstein è uscito dalla torre d’avorio. La convalida delle ricerche, delle scoperte e delle loro applicazioni passa sempre di meno per le Università. Le stesse riviste scientifiche devono misurarsi con Internet e con nuovi criteri di validazione del sapere.» Un’altra mutazione è lo spostamento dei finanziamenti dal pubblico al privato: la metà dei 677 miliardi di dollari spesi in ricerca a livello mondiale viene da multinazionali. Di qui è scaturita la corsa alla visibilità: lo scienziato che non compare in tv o sui giornali ha meno possibilità di trovare finanziamenti. Talvolta la visibilità accomuna pubblico e privato: «Bush e Blair hanno dato per due volte in conferenza stampa congiunta l’annuncio della mappa del Genoma Umano, e in nessuno dei due casi la notizia era davvero corretta, la mappa è tuttora incompleta. Ancora più danno è venuto da annunci infondati: la memoria dell’acqua che doveva spianare la strada alla medicina omeopatica, la fantomatica fusione fredda…». Tutti argomenti che Massimiano Bucchi discute nel suo ultimo libro, Scegliere il mondo che vogliamo (il Mulino), dove fa anche notare come si siano molto accorciati i tempi che intercorrono tra la ricerca e le applicazioni, e ciò anche perché l’investitore privato legittimamente deve perseguire un ritorno economico. Quando poi i tempi di applicazione della conoscenza non possono essere brevi, come nel caso delle cellule staminali, si finisce, complici giornali e tv, con il vivere in una specie di «presente esteso», che include il futuro, per quanto questo possa essere vago. Qualunque sia la causa del deterioramento d’immagine della scienza, rimane il fatto che di fronte alle scelte tecnico-scientifiche la nostra società è paralizzata. Non si fanno centrali elettriche, neppure le più pulite e convenzionali, ma poi ci si lamenta dei blackout. Non si vogliono coltivazioni Ogm, benché uno studio sottoscritto da 21 accademie e società scientifiche in rappresentanza di 10 mila soci abbia accertato che già a 30 metri di distanza la mescolanza tra mais Ogm e non Ogm scende allo 0,5 per cento. Non si vogliono depositi per il trattamento di rifiuti radioattivi, ma si ricorre ogni giorno alla medicina nucleare in centinaia di ospedali. Si rifiutano gli inceneritori, invano ribattezzati termovalorizzatori per renderli più graditi. Come uscirne? «Bisogna riconoscere – conclude Bucchi – che oggi ogni tecnologia incorpora una visione del mondo e che in ogni programma di ricerca vi è già un programma politico, cioè una visione dell’uomo e del suo posto nella natura, e su questa base discutere e prendere le decisioni necessarie. Una società della conoscenza, come quella sollecitata dall’Unione Europa a Lisbona, non può esistere senza una società democratica in tutti i suoi ambiti, incluso il governo della conoscenza.» Tutto vero, purché si accetti una premessa non negoziabile a colpi di maggioranza: e cioè che la conoscenza è un bene in sé, e l’ignoranza un male. E che la razionalità del metodo scientifico è preferibile all’irrazionalità. Inoltre perché la «democrazia della conoscenza» funzioni occorre che tutti i cittadini siano ben consapevoli di ciò di cui si discute, si tratti di Tav o di cellule staminali, di nucleare o di fecondazione assistita. E qui si torna al problema della qualità dell’informazione. Molti politici se la cavano applicando il «principio di precauzione»: nel dubbio, astenersi. Neppure questa però è una scappatoia. «Occorre sapere il rischio di ogni azione e il beneficio che ci si aspetta – scrive il chimico Luciano Caglioti, Università di Roma, nel suo I tre volti della tecnologia, editore Rubettino – ma occorre anche sapere cosa comporta il non agire». Ed è proprio questo il dato più trascurato, dai cittadini e dai decisori politici. Non decidere, spesso, è la peggiore delle decisioni. Ce lo insegna la storia del problema dell’energia. E presto forse avremo altre lezioni.