La lotta tra il “bene” e il “male”: il giornalismo che non fa bene ai sordi (e ai disabili)

Amir Zuccalà

Invito dell’Ente nazionale sordi a valutare con occhio critico un certo linguaggio giornalistico che contribuisce ad alimentare pregiudizi sui disabili. Siete d’accordo?

 

Ricordo con piacere Bruno Tescari, presidente della Lega Arcobaleno, che a un convegno qualche anno fa denunciava come un certo linguaggio giornalistico non facesse che alimentare nell’immaginario comune quel morboso miscuglio di pietismo, senso di colpa e disagio che proviamo nei confronti della disabilità, e che impedisce al contrario di soffermarci sulla persona.

“Inchiodato sulla sedia a rotelle”, “Costretto alla lingua dei segni”, “Circondato dal muro del silenzio” sono alcune tra le tante espressioni che troviamo nei giornali o su internet quando la disabilità diventa cronaca o “approfondimento”.

Ci piace oggi sentirci attori dell’era dell’informazione, della globalizzazione, della democrazia giornalistica, dove attraverso blog, siti, wikipedie, facebook, yahoo answers e simili chiunque può contribuire alla divulgazione della “conoscenza” o assimilarla. Ma iniziamo però a sentire il disagio e la debolezza di una informazione ridotta a slogan, veloce, fatta di concetti complessi ridotti all’osso, fagocitati tritati e ri-assemblati in brandelli di informazione superficiali e privi delle necessarie gradazioni di colore.

Certo la realtà è un continuum complesso e multidimensionale che non può essere integralmente adattata, ad esempio, a un format giornalistico; però tale disagio aumenta se a essere oggetto di shakeraggio mediatico sono temi che riguardano l’autonomia delle persone con disabilità e l’integrazione sociale.

Nel caso della sordità, le persone sorde, le loro famiglie, gli insegnanti, le associazioni, gli specialisti medici ed esperti vari sanno bene che il mondo della sordità è un universo complesso, variegato, fatto di valutazioni e scelte anche difficili – in termini di educazione, (ri)abilitazione, vita sociale – finalizzate a costruire un percorso che conduca il più possibile il bambino verso l’autonomia, l’integrazione sociale, un’identità serena e consapevole.

In tale percorso, che pesa per lo più sulle persone sorde e sulle loro famiglie – spesso non preparate all’evento sordità – è fondamentale che i diversi attori coinvolti mettano a disposizione la loro competenza, supporto, consulenza, orientamento con grande onestà e tenendo conto delle tante variabili individuali, familiari, socioculturali che entrano in gioco nella presa in carico di ogni bambino sordo.

Eppure gli sforzi condotti dalle tante persone che lavorano ogni giorno sul campo con le persone sorde, che elaborano strumenti e materiali di informazione, che promuovono studi, ricerche, campagne per l’abbattimento di stereotipi, pregiudizi e barriere culturali vengono spesso vanificati dalla riduzione a spot commerciali di temi importanti e complessi – quale l’Impianto Cocleare – utilizzando una retorica linguistica che speravamo fosse superata.

Credevamo di aver definitivamente superato l’obsoleto dualismo semi-calcistico tra oralisti e segnanti, tra sordo(muti) e non udenti, tra impianto cocleare e lingua dei segni, tra integrazione e ghetto, tra buoni e cattivi. Sappiamo che il mondo della sordità è fatto di complessità, varietà, multiformità delle esperienze individuali.

Una rappresentazione popolata da squadre che competono per la coppa finale – i non-udenti-oralisti-impiantati-o-protesizzatiamantidell’integrazione versus isordi(muti) segnanti amanti-dell’isola-dei-sordi-ghetto – non può funzionare come modello descrittivo. Abbiamo persone sorde segnanti, sorde impiantate oraliste, sorde impiantate segnanti, protesizzate segnanti, protesizzate non segnanti, pre o postlinguali, congenite, audiolese, anacusiche, diversamente abili e diversabili, amanti del mare o della montagna, della birra o del vino…
Ciò che è fondamentale è il rispetto. Rispettare le scelte individuali, aiutare le famiglie nelle scelte, sforzarsi (nell’ambito delle proprie competenze e ruolo) nel dare un’informazione il più ampia, equilibrata e comprensibile possibile, lavorare per far sì che le persone sorde abbiano gli strumenti, i servizi, le risorse, gli ambienti che favoriscano una sempre migliore qualità della vita.

Per questo riteniamo che la retorica del pro o contro sia sempre controproducente e invitiamo a valutare con occhio critico un certo linguaggio giornalistico, che non solo riduce a slogan temi vitali e complessi ma fomenta le divisioni, schiera il bene contro il male, contribuendo ad alimentare pregiudizi e stereotipi nei confronti della sordità e della disabilità in generale.

Ma vediamo nello specifico cosa accade. Una tecnica retorica molto diffusa consiste nel mettere a confronto nello stigmatizzare la lingua dei segni relegandola a un passato vetusto, vezzo comunicativo dei “sordomuti”, che sarebbe da ritenere “superata” dal progresso tecnologico che consentirà (o già consente?) ai sordi di sentire, grazie, ad esempio, all’impianto cocleare. Tralasciando il commento sull’impianto teorico di matrice (neo)evoluzionista in cui uomo e linguaggio percorrono un cammino progressivo in ascesa, su cui già lo studioso americano Douglas C. Baynton si era soffermato mostrando come le odierne resistenze nei confronti delle lingue dei segni abbiano un’origine ben radicata nella storia del pensiero moderno, ciò che veramente stupisce è che per promuovere una nuova chirurgia/tecnologia come l’IC si ricorra alla stigmatizzazione di una lingua.

Leggiamo su Repubblica dell’1/02/2011 due paginone curate da Annamaria Messa sulla Sordità, dal sottotitolo evocativo: “Impianti elettronici per infrangere il muro del silenzio” (1 febbraio 2011, inserto Salute, pp. 48-49). Ci viene detto che Ogni anno più di mille bambini (in media due su mille) nascono nel nostro paese con una sordità congenita che impedisce di imparare a parlare, rallenta lo sviluppo cognitivo e comunicativo, quindi l’integrazione a scuola, nella società. Ma per i bambini di oggi non c’è più un destino da sordomuti isolati e costretti alla lingua dei segni. Chiave di volta la diagnosi precoce, eventuale protesizzazione subito e riabilitazione.

Sorvoliamo sul fatto che l’estrema sintesi (va bene, è l’articolo di un giornale) non chiarisce che: la sordità non impedisce “di imparare a parlare” ma ostacola l’acquisizione spontanea della lingua parlata, poiché è assente o ridotto il feedback uditivo; la sordità non “rallenta lo sviluppo cognitivo”, è il mancato apprendimento di una lingua (parlata o segnata) che può avere ripercussioni gravi sullo sviluppo globale del bambino. L’operazione più inquietante è quella che contrappone i “sordomuti isolati e costretti [ma costretti da chi?] alla lingua dei segni” ai non-più-sordi di oggi, che grazie a diagnosi, protesi eventuali e riabilitazione hanno superato il problema. È inquietante perché diagnosi, protesizzazione e riabilitazione (termine inadeguato peraltro perché presume una precedente abilitazione, persa e poi recuperata) costituiscono il percorso ormai comune di ogni persona sorda, anche segnante; perché le persone sorde segnanti sono bilingui – non isolate – parlano esegnano.

Vediamo un altro esempio di quanto tale strategia comunicativa sia diffusa non solo sui media ma nelle stesse strutture sanitarie. In bella vista sull’home page del sito web dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma un comunicato stampa del 03/01/2011 portava questo titolo altisonante: La fine del silenzio: al Bambino Gesù la chirurgia di ultima generazione che dona l’udito. Lo stesso comunicato conteneva anche una profezia: tra 70 anni addio al linguaggio dei segni. Anche in quel testo per elogiare le virtù dell’IC si è ritenuto necessario metterlo in competizione con una lingua e con la comunità delle persone – sorde e udenti – che la utilizza.

Qui addirittura l’IC assurge a paladino di una svolta senza precedenti, che ha conseguenze storiche, sociali, educative: il ricorso agli impianti cocleari getta così un ponte tra due epoche: quella di un mondo senza suoni né parole, delle scuole speciali e dell’isolamento – in cui l’unico contatto con la realtà poteva essere una protesi acustica – e quella attuale, dove il bambino, grazie al recupero dell’udito, può imparare a parlare senza ulteriori handicap e può esprimersi attraverso tutti gli strumenti della comunicazione.

La dose si rincara e nel mirino cadono anche le protesi acustiche, evidentemente anche quelle digitali di nuova generazione, con buona pace delle tante aziende che le producono. In questo testo emerge con tutta la sua forza il pregiudizio che la persona sorda senza IC è muta, isolata e nuota come un pesce in un triste mare “senza parole”: il sordomuto è il pallido riflesso di un’epoca andata. Mentre il sordo di oggi sente (?).

Ciò che incuriosisce l’occhio dello studioso, ma irrita quello di chi lavora cone perle persone sorde, è da un lato un quadro descrittivo così distante dalla realtà, che ci racconta di questi strani sordomuti incapaci della più elementare comunicazione e sospesi in una dimensione altra, come moltitudini di ragazzi selvaggi isolati dal comune tessuto sociale; dall’altro, l’elogio della scienza – simboleggiata dall’IC – che si manifesta in virtù della denigrazione di tutte le altre esperienze di vita, attraverso la completa negazione di qualsiasi altra possibilità che non abbracci il credo dell’IC. Inoltre, in tali descrizioni non compare minimamente il punto di vista delle persone direttamente interessate – ovvero dei sordi: evidentemente, in tale paradigma di senso una prospettiva interna viene ritenuta anacronistica, inutile, così come il motto del mondo della disabilità internazionale Nulla su di noi, senza di noi.

Ma perché mettere in competizione una tecnica chirurgica con una lingua? È un’operazione senza precedenti e allora viene da chiedersi come mai la stessa cosa non accade, ad esempio, per altre disabilità sensoriali? Perché quando si parla dei recenti successi sperimentali di impianto di “occhi bionici”, non si proclama la fine dell’epoca del buio, non si profetizza la fine del braille tra 70 anni, o di altri sistemi per l’integrazione sociale delle persone cieche, ma ci si concentra semplicemente sui risultati delle ricerche, auspicandone il progresso continuo? L’utilizzo di una retorica linguistica specifica sulla sordità non fa che confermare la paura di quella diversità che la lingua dei segni rende così evidente, il disagio verso la scandalosa – come la chiamerebbe Foucault – corporeità di una lingua che viaggia in un’altra modalità rispetto alle più rassicuranti, note e prestigiose lingue vocali/scritte.

Se in USA possiamo vedere filmati in cui persone sorde con IC e segnanti in American Sign Language ci raccontano una convivenza serena con la propria identità sorda, multiforme, cangiante, pluridimensionale, in Italia ancora subiamo il fascino del dogmatismo dualista, della contrapposizione calcistica, che ci invita ancora con prepotenza a schierarci con o contro.

Fortunatamente la vita di tante famiglie e persone sorde dimostra ogni giorno che l’esperienza è più complessa, e che il sentiero della sordità è costruito con pietre diverse, i cui componenti sono il bilinguismo, il plurilinguismo, l’IC, le protesi, la logopedia, le scuole pubbliche e speciali, ma soprattutto le lotte concrete per i diritti fondamentali alle pari opportunità e all’autonomia.

E allora occorre vigilare per evitare di cadere di nuovo nelle diatribe dualiste, come già ci esortava a fare il sordomuto Ferdinando A. Castagnotti, che nel 1896su La voce dei sordomuti italiani ci diceva:

Cessino una volta, e per essa, gli educatori a scendere in polemiche giornalistiche e questioni personali perché altrimenti non si potranno mai risolvere equamente i nostri problemi. È vero che non tutti gli educatori non sono concordi su un sol problema. Chi vuol il metodo orale puro, chi il misto, chi la scuola interna, altri l’esterna, ma non tutti sono in discordia per vera convinzione del proprio parere, ma molti per puro interesse personale […]