Come i politici esprimono i loro contenuti, usando come pretesto, un argomento particolarmente scivoloso per tutti, la disabilita’? Difficolta’ che, in verita’, riguarda anche i disabili stessi.
Non basta, infatti, essere disabili per sapere tutto sulla disabilita’, anzi… questa e’ una difficolta’ aggiuntiva sulla strada dell’autoconsapevolezza. Probabilmente il problema e’ che padroneggiare la sfera della disabilita’, non riguarda l’essere persona disabile ma il divenire persona nonostante la disabilita’.
Quando si tratta di spiegare ai nostri rappresentanti politici quali siano le nostre necessita’, le richieste non sono precise o, peggio, sono da interpretare. Un conto e’ dire "non riesco ad entrare a scuola perche’ ci sono degli scalini", altro conto e’ dire che serve il montascale o lo scivolo. Ancora piu’ incisivo sarebbe poter far sapere la percentuale di pendenza della rampa e cosi’ via.
Oltretutto, il sentire comune che una soluzione che va bene per uno -ad esempio un cieco- va bene per tutta la categoria, come se tutti avessimo le stesse aspettative, la stessa personalita’, le stesse esigenze, e’ anch’esso un male comune anche fra i disabili.
Di conseguenza, chi prima arriva a farsi delle esperienze e prima trova le soluzioni, sta in una posizione di vantaggio, nel progresso delle varie categorie di disabili. Ecco perche’ spesso si fa riferimento all’estero: la’ non si sta anni a decidere cosa fare, ma si prova a sperimentare senza creare contrapposizioni di forza -cosa che da noi e’ all’ordine del giorno. Quando si arriva a queste contrapposizioni, e’ matematicamente impossibile usare il buon senso richiamato da Costituzione e codici civili. Il risultato e’ che le cose vengono fatte per obbligo, controvoglia, in maniera frettolosa, applicando le norme in modo burocratico e non umano.
Quale puo’ essere la volonta’ politica?
La conoscenza delle cose, anche attraverso reti di persone che approfondiscano gli argomenti col giusto spirito critico, puo’ aiutare a non fare passi falsi. Anche se certi sfondoni, non sono percepiti quasi da nessuno, e di questo bisogna tenerne conto. E, sempre piu’ frequentemente, sentiamo fare confusione di significati da chi vorrebbe essere dalla parte delle persone disabili.
Facciamo un esempio. Marco Pannella, che e’ un politico attento ai problemi della disabilita’, nel suo argomentare continua a insistere sulla parola ciecita’ come se fosse un atto di volonta’, quando, invece, la ciecita’ e’ un dato di fatto: questo o quel personaggio non sono oggettivamente ciechi, ma fanno finta di non vedere… che, almeno per noi, non e’ la stessa cosa. Non solo, ma ci sentiamo apostrofati come portatori di handicap, non vedenti anziche’ ciechi, non udenti anziche’ sordi, diversamente abili, eccetera. Eppure, sul sito della associazione radicale "Luca Coscioni per la liberta’ di ricerca scientifica" ci sono dei documenti che spiegano chiaramente cosa sia questa "vita indipendente". Su Radio Radicale abbiamo sentito parlare di determinati ausili che permetterebbero la vita indipendente di una persona disabile, ma si tratta di ausili che, invece, permetterebbero alcune autonomie, semmai a quella specifica persona. Altro e’ "vita indipendente".
Il linguaggio di Marco Pannella e dei radicali e’ frutto di una confusione molto diffusa: la differenza fra "vita indipendente" e "autonomia". Confusione che, tra l’altro, c’e’ anche fra i disabili. Specialmente fra quelli che, per politica o per vendere i propri prodotti, hanno bisogno di slogan sempre freschi e trattano le parole in modo del tutto intercambiabili, senza badare ai significati. L’effetto mediatico e potenzialmente liberatorio dell’uso di "vita indipendente" piuttosto che "autonomia" viene considerato maggiore e piu’ coinvolgente, cosi’ come si sente sempre piu’ spesso dire "assolutamente si’" o "assolutamente no", piuttosto che "si’" o "no", oppure "assai soddisfatto" piuttosto che "molto soddisfatto" o "soddisfatto". Si vuole sempre stupire e dare maggiori certezze, poco importa se la realta’ e’ un’altra… si vende l’illusione. E in una quotidianita’ abitualmente semplice per i piu’ ma non per i disabili, non porre attenzione -o volutamente esagerare- nel linguaggio, crea danni maggiori: l’aspettativa delusa e’ peggiore di una realta’ che, pur se difficile, si sa che deve essere affrontata a denti stretti.
La "vita indipendente", o meglio "il vivere indipendente", non e’ dato solo ed esclusivamente da questo o quell’ausilio. E’ una filosofia di vita del disabile, un movimento di liberazione dal giogo delle necessita’ legate alla disabilita’, in cui il ruolo fondamentale e’ svolto dagli assistenti personali e, conseguentemente, dalle risorse economiche per avere questi assistenti, che lavorano per un tot di ore che necessitano al disabile. Dopo, anche per i disabili che fanno vita indipendente, vengono gli ausili o il problema delle barriere architettoniche e sensoriali: ma non prima ne’, tantomeno, al posto degli assistenti.
Noi che siamo due ciechi, abbiamo al momento ben 56 ausili. Ma l’uso continuo di essi non fa "vita indipendente". Ogni ausilio risolve un determinato aspetto permettendo una certa autonomia. Ma questi non si sostituiscono all’attivita’ che noi facciamo con gli assistenti personali. Per esempio, vedere se un vestito e’ macchiato, leggere le scadenze sulle etichette alimentari, compilare un bollettino postale, leggere le tante cose ancora scritte a mano o contrassegnate con una crocetta fatta a mano, andare a votare, andare a passeggiare in un parco fuori citta’ (nel senso anche di arrivarci), visitare e raggiungere grandi aree come fiere o mostre, andare ad una conferenza e fermare questo o quell’oratore che sta passando per comunicare con lui le proprie impressioni, sono tutte cose che non sono possibili con un ausilio.
Allora come si fa? In molti pensano che si debba continuare a risolvere l’assistenza alla persona con l’aiuto della mamma, del coniuge, degli obiettori (che non ci sono piu’), del servizio civile, dei volontari, della rinuncia. Oppure, parlando dei problemi dei disabili, si pensa che si stava meglio quando si stava peggio… relegandoci dietro alle rassicuranti cancellate dei grandi istituti di ricovero di quelli come noi. Oggi, gli istituti non ci sono piu’ ma i ghetti ci sono ancora. Sono piccole unita’, difficilmente visibili, dove i disabili sono divisi in modo che non possano fare gruppo e fare forza contro chi li gestisce. Quali diritti, quali liberta’ saranno garantite a quei disabili ricoverati in tali strutture? Che qualita’ della vita potranno godere quei disabili rinchiusi in tante piccole realta’, fuori da ogni controllo?
Spesso le associazioni che si occupano di disabili sono le stesse che gestiscono la struttura per l’ente pubblico. Si realizza cosi’ una triangolazione dove l’ente pubblico che mette i soldi non si sporca le mani, l’associazione o la cooperativa fa quello che puo’ e diventano eroi, ma garantiscono a malapena la sopravvivenza, e il disabile e’ incastonato in queste pastoie. Ma piu’ che sopravvivere… non puo’ fare. Non puo’ pretendere null’altro dalla struttura, ne’ da se’ stesso. Alla fine la colpa e’ sua perche’ e’ sua la disgrazia.
In conclusione. Invitiamo a riflettere su quanto abbiamo scritto. Si tenga conto che noi disabili stiamo lottando per ottenere leggi regionali sulla "vita indipendente" e, troppo spesso, gli amministratori locali la confondono con i soldi per abbattimento delle barriere, per ausili, per assistenza domiciliare o soldi per residenze assistite ancora piu’ speciali di altre.