“Per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante ed il modesto quantitativo di prodotto ricavabile appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore, non costituiscono reato le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica”.
Queste le anticipazioni di una pronuncia delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione chiamata a chiarire l’applicazione del Testo Unico sulle droghe del 1990 a seguito di una serie di decisioni difformi adottate negli anni da vari tribunali locali sebbene la Corte Costituzionale avesse confermato che coltivare la pianta della cannabis dovesse, sempre e comunque, esser considerato reato.
Arriva la notizia è partito subito il coro dei soddisfatti, che naturalmente considerano la decisione “epocale”, e dei contrari che invece l’hanno ritenuta “scioccante”. C’è quindi da gioire o da lagnarsi di questa (ennesima) decisione della Suprema Corte? Anche qui la “verità” sta nel mezzo.
Fermo restando che sicuramente questa decisione farà pensare due volte chi dà la caccia alle “piantine sul balcone” di chi se le fuma da solo o in compagnia e per qualsiasi motivo, e che quindi chi viene beccato nell’atto non dovrà subire tutti i passaggi attualmente previsti dalla legge ex-Jervolino Vassalli, e in attesa delle motivazioni della sentenza, va detto che si conferma in pieno l’incertezza del Diritto creata dalle norme nazionali anti-droga.
Quante piante sono “un numero scarso”? Quant’è “il modesto quantitativo di prodotto”? Cosa vuol dire “ricavabile”? Come si stabilisce se quanto sopra “appaia destinato”? Quali sono i confini della “via esclusiva all’uso personale”? E chi è stato soggetto a sanzioni penali e amministrative in tutti questi anni verrà retroattivamente esonerato da quanto subito? E anche ricompensato?
Nella speranza che le motivazioni della sentenza forniscano qualche elemento in più per capire quali condotte siano state in effetti, anzi in sostanza, depenalizzate, la legge rimane intatta in tutte le sue parti.
Ricordiamoci che si tratta di una normativa che è stata adottata 30 anni fa, modificata nel 1993 da un Referendum popolare promosso dal Partito Radicale – che depenalizzò sostanzialmente il consumo personale -, indurita ideologicamente nel 2006 con la parificazione di trattamento penale e amministrativo tra le varie sostanze dalla legge cosiddetta Fini-Giovanardi, in parte rivista da una sentenza della Corte Costituzionale nel 2014 e adeguata da un decreto ministeriale nello stesso anno.
Negli ultimi 10 anni, il combinato disposto di questa legge contro le droghe e altre norme, in particolare la legge ex-Cirielli, ha contribuito, tra le altre cose, a rendere le carceri italiane luoghi dove si praticano trattamenti inumani e degradanti in virtù dell’eccessiva presenza di detenuti, in strutture spesso fatiscenti. Persone che, nel 30% dei casi, sono ristrette per aver violato la legge del 1990.
Epocale o scioccante che sia, questa sentenza si interessa solo di un fenomeno marginale (anche se in crescita) collegato non tanto alle “droghe” ma agli effetti della legge contro le “droghe”: la coltivazione domestica. L’unica modifica che potrà fare chiarezza su cosa possa esser fatto, da chi, come, dove e in quali quantità sarà una modifica radicale della normativa vigente.
L’Associazione Luca Coscioni – e altre associazioni – ormai quattro anni fa elaborarono una proposta di regolamentazione legale della produzione, consumo e commercio della cannabis e dei suoi derivati indipendentemente dalla destinazione finale dei “prodotti” (oltre che per la totale depenalizzazione dell’uso e detenzione personale di tutte le altre sostanze oggi proibite per la loro minaccia alla salute e l’ordine pubblico). Quella proposta è stata presentata assieme a Radicali Italiani alla Camera dei Deputati nel novembre del 2016 e da lì non s’è mossa.
Quindi, sia che si sia a favore della modifica delle norme che ancora proibiscono la presenza delle sostanze contenute nelle tabelle delle Convenzioni ONU in materia di stupefacenti o che invece si ritenga di dover insistere col proibirle, se non ci si confronta su un’idea di “governo del fenomeno” il resto è solo commento. E dopo 30 anni di commenti il fenomeno da governare è arrivato a far segnalare oltre un milione di persone dai prefetti, a far fermare e/o arrestare centinaia di migliaia di consumatori, fa girare decine di miliardi di dollari e, soprattutto, a intasare le Procure della Repubblica.
Affinché il 2020 possa finalmente far smontare norme liberticide e criminogene occorre che il Parlamento e il Governo si assumano le loro responsabilità di legislatori. Il resto sono solo commenti.
