Al radicale Piergiorgio Welby sono riuscite due imprese grandi: la prima, di interrompere senza soffrire – ma anche senza nascondersi nella clandestinità – la tortura a cui era sottoposto; la seconda, di ottenere dalla giustizia italiana il riconoscimento della legalità dell’operato di Mario Riccio, di Mina, di Carla, dei suoi compagni. Si è trattato in realtà di un’unica grande impresa nonviolenta: far vivere sul proprio corpo il diritto e le libertà di tutti. Milioni di persone gli sono state a fianco, si sono riconosciute nella sua speranza, hanno vissuto e vinto con lui. Un anno dopo, l’Assemblea generale dell`Onu ha votato la moratoria mondiale delle esecuzioni capitali. Non poteva esserci modo migliore per celebrare questa data: due battaglie radicali, due battaglie «per la vita»: la vita che si sceglie, che non si deve poter togliere, che non si deve poter imporre. Sembra così semplice.
Eppure per novanta giorni Piergiorgio si è dovuto spingere ai limiti delle proprie forze fisiche e mentali per non crollare, per trovare una soluzione sembrava non arrivare mai. Non ne poteva più di vedermi. Per lui, rappresentavo il tentativo estenuante di cercare strade alternative a quella che era già pronta da settimane: i medici belgi Eric Picard e Marc Resinger avevano completato l`iter di visite e referti medici necessario per procurarsi la sostanza eutanasica per lui. Erano pronti a somministrarla, su sua richiesta, al paziente Welby, seguendo la legge del proprio Paese e la propria deontologia professionale, pronti ad assumersi il rischio di non poter più mettere il piede in Italia, o peggio.
Piergiorgio – per tanti anni sconosciutissimo e, con noi, clandestinizzato dirigente radicale, compagno delle battaglie di Luca Coscioni perla ricerca scientifica e i diritti delle persone disabili – non ne poteva più di una vita che non considerava più vita. Eppure nei tre mesi passati dalla lettera al Presidente Napoletano a quella notte del 20 dicembre riuscì – anche grazie alla risposta attenta e forte del Presidente – a compiere l’impresa di trasformare la propria sofferenza senza senso in una speranza per tutti.
Un grido di resa, «lasciatemi morire», era divenuto affermazione vincente del diritto di interrompere un trattamento sanitario senza essere condannato a soffrire, del diritto di essere soggetto di una scelta invece che oggetto di scelte altrui, in balia di una macchina idolatrata e imposta come «sacra». Tre mesi di resistenza, con momenti di disperazione e sfiducia nei suoi compagni radicali – ricordo quando Piergiorgio, che non voleva più aspettare si scontrò con Marco Pannella chiedendo con rabbia a Mina che gli staccasse il respiratore – resero possibile il coinvolgimento della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, oltre che delle massime personalità istituzionali, di grandi personalità del mondo scientifico e del diritto.
Tanto autorevoli e numerose erano state le prese di posizione pubbliche che, quando da Cremona il medico anestesista Mario Riccio rispose all’appello dell’associazione Luca Coscioni, credeva ci fosse la fila di colleghi, magari ben più noti, disponibili ad agire concretamente secondo deontologia professionale. Si sbagliava: era il primo ed unico, toccava a lui. Solo se avesse fallito la difficile operazione (Piergiorgio non aveva vene facilmente rintracciabili) sarebbero intervenuti i medici belgi, con una vera e propria eutanasia). Se la memoria popolare di Welby rimarrà viva nel Paese – se, usando un’espressione di Sciascia, «la memoria avrà un futuro» -allora continuerà a produrre effetti di conoscenza, di diaologo, di riforma.
Allora anche le conquiste laiche, dal testamento biologico alle coppie di fatto, potranno avere un futuro che la paralisi delle istituzioni e dei partiti sembra oggi negare. L’impresa che è rimasta da compiere è proprio quella della riforma della politica, della partitocrazia italiana, che ha consegnato al Vaticano il monopolio, anche mediatico, dell’«etica» e dei «valori». È un monopolio che ha cominciato a vacillare forse proprio con Welby, con la piazza piena di fronte alla Chiesa chiusa dei funerali negati; a mostrare debolezze e contraddizioni che non basta l’esercizio furbo del potere per ricomporre.
E così oggi il Presidente della Commissione Sanità del Senato, Ignazio Marino, che Welby decise di incontrare, è accolto e riconosciuto in modo straordinario quando racconta alla gente il tentativo di portare, con moderazione e equilibrio, delle regole per aiutare pazienti e medici che si trovano a scegliere come accade già nella clandestinità per il 62% dei malati terminali – delle forme di desistenza delle terapie. Quando con Pannella proponemmo a Piero un ultimo ricorso al giudice, ci rispose «ora basta, devo concentrarmi sulla mia morte. E la prima volta che muoio». Se l’amore per la vita può strappare alla morte un sorriso, anche la speranza di ottenere buone leggi non è perduta.