Welby non può aspettare e il fatto che la sua richiesta sia umanamente comprensibile non risolve la sua situazione. In sintesi, quanto Welby ha ottenuto è silenzio – non inteso letteralmente. Ma pur sempre silenzio.
Di questo silenzio dovrebbero provare vergogna quelli che, con le bocche cucite e le mani in grembo, si nascondono dietro all’ipocrisia del rispetto assoluto della vita. Quelli che non hanno avuto nemmeno il coraggio di dire onestamente: “Welby, non c’è niente da fare e niente faremo”.
E forse, paradossalmente, finiscono per provare vergogna quelli che sono impotenti, quelli che non hanno la possibilità di cambiare le cose. Quelli che stanno dalla parte di Welby, e che nonostante la sua richiesta terribile vorrebbero aiutarlo a soddisfare la sua volontà come gesto estremo di rispetto e di dedizione. Quelli che in tutti questi anni si sono presi cura di lui, prima di tutti la sua donna, Mina. Finiscono per vergognarsi erroneamente quelli che non c’entrano con questo silenzio, come qualche volta succede assistendo a un comportamento imbarazzante di un personaggio in un film.
Ci si vergogna al suo posto, forse per un meccanismo di identificazione o per una naturale tendenza a chiedersi cosa si proverebbe nei suoi panni: disagio. Perché bisognerebbe davvero vergognarsi di avere costretto Welby a ripiegare sulla disobbedienza civile per riappropriarsi di un diritto fondamentale.