<b>30 Maggio 2003</b> – C'è forse qualcuno, ai vertici dell'Ulss di Belluno, che per motivi politici vuole affossare la fecondazione assistita? Che magari ha qualche remora nei confronti delle sofisticate metodiche che riescono a fare nascere una vita laddove fallisce madre natura? O che preferisce che le coppie si affidino alle onerose cure di qualche centro privato? A porsi queste domande è Luca Gianaroli, direttore della società italiana di studi della medicina della riproduzione nonché membro della task force creata dall'organizzazione mondiale della sanità proprio per monitorare e regolare la pratica della fecondazione assistita.
L'antefatto: da circa tre anni, nel reparto di ginecologia e ostetricia di Pieve di Cadore, funziona il centro per la procreazione medicalmente assistita. In questi 36 mesi di attività sono passate di là decine e decine di coppie che sono riuscite a concepire quel figlio che, per le vie naturali, proprio non voleva arrivare. Il centro si è sempre avvalso della consulenza del professor Gianaroli. Ebbene: il direttore generale dell'Ulss, attraverso la stampa, ha annunciato che la convenzione in corso con l'equipe del professore non sarà rinnovata perché il reparto di Pieve deve cominciare a camminare con le proprie gambe. «Il professore doveva addestrare il nostro personale – ha spiegato il direttore sanitario Lucio Di Silvio – Però lo "svezzamento" procede a rilento. Ma non possiamo immaginare di avere un provider esterno vita natural durante».
Le dichiarazioni di Di Silvio hanno sorpreso non poco il professor Gianaroli, che oggi risponde alla dirigenza dell'Ulss senza reticenza né falsa diplomazia. Sentendosi «chiamato in causa in maniera pesante», ribatte punto per punto. A cominciare dall'idea che il personale di Pieve sia stato un po' tardo nell'apprendimento delle tecniche della fecondazione assistita. «Non è affatto vero che lo "svezzamento" sia stato lento. Il personale medico di Pieve è altamente qualificato: lo dimostra il fatto che su 250 cicli già completati le complicanze sono state inferiori alla media. Il problema è che il personale non ha tempo per l'addestramento perché è sottodimensionato rispetto ai bisogni».
<b>L'Ulss non è di questa idea: secondo la dirigenza, il personale è più che sufficiente.</b>
«Basta fare due conti: ogni ciclo, ovvero ogni coppia, richiede 50-60 ore di lavoro. Come fanno quattro medici a coprire tutto questo arco di tempo? Aggiungo che le tecniche di cui stiamo parlando richiedono personale specializzato di laboratorio. Ebbene, da quando sono lì, nonostante i solleciti, la direzione sanitaria non mi ha mai dato il nome dei biologi da mettere in training, non ha ancora configurato il personale che dovrà occuparsi a tempo pieno della fecondazione assistita».
<b>Da cosa deriva, secondo lei, questo ritardo? </b>
«Per la prima volta nell'Ulss viene praticata una tecnologia avanzata che richiederebbe anche una direzione sanitaria culturalmente avanzata. Il dottor Di Silvio, invece, ha un background da medico di base».
<b>Che percentuale di successo ha l'inseminazione a Pieve? </b>
«È la percentuale più alta in assoluto delle strutture sia pubbliche che private di tutto il Veneto: siamo tra il 30 e il 35 per cento, quando di solito il tasso è del 20-25 per cento. C'è da considerare anche il fatto che noi trasferiamo sempre e solo due embrioni, per cui abbiamo il tasso più basso di gravidanze gemellari».
<b>Dal punto di vista dei risultati dunque va tutto bene. E per quanto riguarda i costi? </b>
«Tenendo presente che più del 50 per cento delle pazienti viene da fuori Ulss e dunque porta soldi, non si capisce cosa significa parlare di costi. Comunque, facciamo qualche cifra: oggi per ogni coppia che fa il trattamento, l'Ulss dà alla mia equipe – tre persone per cinquanta ore di lavoro – 2300 euro. In più vengono offerte gratuitamente tutte le consulenze ambulatoriali, chirurgiche e tutte quelle da meno di dieci ore per le pazienti che non completano il trattamento. Ebbene, se non ci fosse il centro di Pieve di Cadore e le pazienti bellunesi dovessero andare a farsi curare fuori, l'Ulss dovrebbe pagare una cifra che oscilla tra i 3000 e i 3500 euro. Per questo io dico che il discorso del risparmio è incomprensibile. A questo punto mi chiedo se non siamo di fronte a una scelta politica: ma allora è tutto inutile parlare di nuove tecnologie o di benessere delle pazienti».
<b>Cosa significa «scelta politica»? </b>
«Chiudere la convenzione adesso significherebbe chiudere il centro. Per questo viene il sospetto che a monte della decisione ci sia una scelta politica dettata da un problema nei confronti delle metodiche. Ma allora quello del centro di Pieve diventa una questione che va risolta tra Ulss e popolazione. Aggiungo poi che la chiusura del centro andrebbe a tutto vantaggio dei numerosi centri privati che si occupano di fecondazione assistita».
<b>Ma è vero che altri centri pubblici, come per esempio Conegliano, sono riusciti a emanciparsi più in fretta dalla sua equipe? </b>
«Non è affatto vero. Chi si è affrancato prima ha pagato poi in termini di risultati. Prendiamo proprio il caso di Conegliano: da quando è venuta a mancare la consulenza la percentuale di successi è la metà del previsto. Il che significa che l'Ulss deve sopportare costi più elevati perché la coppia deve ripetere il trattamento più volte».
<i>di Federica Bellicanta</i>