L’asimetria del dolore, qui alla torre 5, piano 2 della clinica Maugeri di Pavia, ha una crudeltà spettacolare: per un’inversione delle parti, l’unico condannato a morire senza possibilità di cura è il medico.
I malati di tumore in lotta con leucemie e linfomi qualche speranza di guarigione almeno ce l’hanno fino a quando l’ematologo Mario Melazzini, 47 anni, primario del day hospital oncologico, continuerà a girare sorridente fra loro in camice bianco, a entrare nelle camere sulla sedia a rotelle munita di motore e clacson, a dettare diagnosi con voce ogni giorno più gutturale, a prescrivere terapie puntando una alla volta le lettere sulla video tastiera per disabili del pc con l’unico dito che ancora non si è ribellato ai comandi muscolari.
Come Luca Coscioni, morto lo scorso 20 febbraio, da più di tre anni il dottor Melazzini combatte contro la Sla, sclerosi laterale amiotrofica. Ma non gli va di prestare ai radicali, perché ci facciano politica, il suo corpo irrigidito dalla paralisi progressiva. Medico dal 1983, sposato con un’ortottista, tre figli di 22, 17 e 11 anni, il Mela (amici e concittadini lo chiamano così) ha superato l’innata timidezza per trasformare il suo male in uno show. Era difficile immaginare una via crucis che avesse per stazioni Porta a Porta e Domenica in e per santino Storia di Mario, un cortometraggio con Ricky Memphis nel quale l’oncoematologo interpreta se stesso. Davanti a questa testa sorretta dal collare, a questi occhi guizzanti che gridano vita, a quest’uomo che confessa d’aver cercato fin da bambino i segni della sofferenza nei coetanei e anche negli adulti.
«Mi inibivo, stavo attento a controllare persino il mio tono di voce se m’accorgevo che poteva far star male gli altri», le platee trattengono il respiro ammirate. L’ultima apparizione, 550 secondi nel programma domenicale di Mara Venier, è stata occupata per quasi un decimo da un applauso scrosciante. Una standing ovation di 45 secondi. Un tempo infinito, televisivamente parlando. Come per Paul McCartney» s’è stupita la conduttrice. Ad accompagnare Melazzini cera un altro pavese, il suo più caro amico: Rosalino Cellamare, in arte Ron, il cantautore che a 17 anni debuttò al Festival dì Sanremo portando in coppia con Nada li brano Pa ‘diglielo ama’. Solo per lui, per Ron il Mela, ha accettato di tornare con L’ uomo delle stelle sul palcoscenico del l’Ariston dal quale era sceso vincitore nel 1996. Solo per lui, per il Mela, Ron inciso un cd con Claudio Baglioni, Loredana Berte, Luca Carboni, Carmen Consoli Lucio Dalla, Elisa, Jovanotti e altri. Cosicché un giorno si dirà: era grande il Liga, ma ancor più grande è stato il Mela.
Che cosa le ha tolto la Sla?
A parte la motricità, nulla. Anzi, mi ha dato tantissimo. Mi ha fato percepire quanto la medicina sia impotente di fronte alle malattie. Mi ha insegnato a chiedere aiuto. Chi l’avrebbe mai detto che un giorno mi sarei soffocato sorseggiando un bicchiere d’acqua? Dal modoin cui uno s’occupa di te capisci d’esistere. C’è stato un momento in cui non amavo più la vita perché mi pareva fatta solo di atti materiali. Come ha scritto Tiziano Terzani, dovremo cercare un farmaco per la mortalità, imparare a distaccarci dal nostro corpo.
Quali cambiamenti le ha imposto?
Per me la montagna era ed è tutto. Non poter più camminare,sciare, arrampicarmi…Una rabbia. Ma poi la mente umana ha la capacità di adattarsi, quando si è motivati. Certo, essendo coinvolti i muscoli della masticazione e della deglutizione, ho dovuto dire addio ai piaceri del cibo. Da due anni mi nutro attraverso la Peg, gastronomia endoscopica per cutanea. Ogni tanto mia moglie mi prepara una tazzina di caffè addensato o un frullato di mela, giusto per farmi sentire sulla lingua un sapore diverso dalle sostanze che mi sparano nella pancia attraverso la sonda. Non capisco perché siano tutte aromatizzate alla vaniglia.
Ma come fa dallo stomaco ad arrivare il gusto in bocca?
E il reflusso gastroesofageo dove lo mette? Solo ruttini vanigliati: Dopo un po’ non se ne può più.
Quanto ci impiega a nutrirsi?
La pompa a infusione è lenta, 80-120 millilitri l’ora. Per mia scelta ho deciso un’unica somministrazione giornaliera. Comincio alle 6 di sera e finisco alle 2 di notte.
Che cosa sapeva della sclerosi laterale amiotrofica prima di esserne colpito?
Pochissimo. Remmiscenze di un esame sostenuto nei 1980. Malattia neurodegenerativa progressiva dei motoneuroni cioe le cellule nervose cerebrali e spinali che permettono i movimenti della muscolatura volontaria. Mortalità a tre quattro anni dalla diagnosi: 80 per cento. Detta malattia di Charcot, dal nome del neuropsichiatra francese che la descrisse per primo nel 1874. Detta anche morbo di Lou Gehrig, in memoria del grande giocatore di baseball portato sullo schermo da Gary Cooper. Ricorda il film L’idolo delle folle? È del 1942. Il campione dei New York Yankees mori un anno prima, non ancora quarantenne. È rimasto famoso il congedo pronunciato, quando era già prossimo alla fine, davanti al pubblico che l’aveva applaudito in 2.130 partite: «Mi considero l’uomo più fortunato del mondo»
Sul piano scientifico sapeva davvero poco.
M’era rimasta impressa una frase del bignami di neurologia. «I pazienti assistono impotenti alla loro morte per arresto respiratorio». Che brutto, pensai allora. Dal 1993 s’è cominciato a capirne di più, con la scoperta della mutazione del gene Sod1, superossido dismutasi, che serve a produrre un enzima. Il quadro clinico della Sla è stato così prodotto sui topi di laboratorio.
In pratica che accade nell’uomo?
Per motivi ignoti, nei motoneuroni inteiviene un accumulo abnorme di glutammato, l’aminoacido usato dalle cellule nervose come segnale chimico. Questo effetto citotossico viene contrastato da un unico farmaco, il Riluzolo. Esiste solo dal 1996 e va assunto precocemente.
Lei Io prende?
Sì. Ma il Riluzolo può solo posticipare la prognosi infausta. Di quanto? Di 90 giorni, 120 al massimo.
La diagnosi di Sla quando l’ha avuta?
Quella certa il 17 gennaio 2003, un anno dopo la comparsa dei sintomi.
Quali furono?
In ospedale strascinavo il piede sinistro sul linoleum dei corridoi.
Che cosa pensò?
Che ero stressato. Inforcai la bici, il mio ansiolitico. Mi preoccupai quando vidi che s’allungavano i tempi e calavano i chilometri, Una stanchezza mostruosa. M’ addormeritavo a tavola.
Non pensò di sottoporsi a esami?
Rinviai, forse per una paura inconscia. Finchè non iniziarono i crampi muscolari. Chiesi aiuto a un amico neurologo. Decise che conveniva prenotare una biopsia all’istituto Besta di Milano. Ero diventato paziente.
Cioè?
Per la prima volta mi trovavo dall’altra parte della barricata. Lunghe code agli sportelli per aprire la cartella clinica, liste d’attesa per gli esami, tutta l’ indifferenza del personale sanitario. Chiedevo: che cosa mi fate? Risposta: «Ma non è medico?». Quando avrò i risultati? «Lo sa anche lei che ci vuol tempo!». Telefonate su telefonate. Alla fine mi rispose una collega: «Sì, qualcosa è uscito, Lei ha una miopatia aspecifica. Si dimentichi la bicicletta».
Che cura le ordinò il neurologo
«Prendi un po’ di carnitina e vediamo come evolve». Subentrarono le fascicolazioni. Sono contrazioni involontarie. Sentivo friggere i muscoli di mani, faccia, addome, gambe. Faticavo a camminare. L’ortopedico e gli amici fisiatri della Maugeri: «Mario, perchè non ti aiuti con un bastone?». Comprai il bastone. Però dopo qualche settimana nei corridoi dovevo aggrappari al passamano. Vabbè, vorrà dire che userò due bastoni. «Mario, perché non adoperi una carrozzella? Andresti più veloce». Ma voi siete matti! Presi a portarmela a casa la sera, di nascosto. Da quando ci è inchiodato? Dalla fine dei 2002. Quattro giorni di prove generali sulla pista ciclabile di Livigno, la mia seconda patria. Dalla chiesa al maneggio: due ore con le stampelle, appena 30 minuti spingendo la sedia a rotelle. Aveva ragione Carlo, il fisiatra: più veloce. Il lunedi mi presentai in ospedale sulla carrozzella. Mi guardavano come se fossi impazzito, pensavano che somatizzassi. E io: niente, niente, tranquilli, è solo per muovermi più velocemente
Come capì che era Sla?
Ci arrivò il professor Corrado Angelini dell’Universita di Padova, uno dei più grandi neurologi italiani, dopo un’elettromiografia. Ritto in piedi, sentenziò: «Sai, Melazzini, purtroppo hai la sclerosi laterale amiotrofica». Ero con mia moglie Daniela. Accompagnandoci alla porta, concluse: «Io mi fermo qui. Non posso far nulla».
Che reazione ebbe sua moglie?
In auto rimanemmo muti da Padova a Pavia.
E i vostri figli?
Federica frequentava il primo anno di medicina. Si distaccò per non vedermi soffrire. Poi un giorno ci chiudemmo nella mia stanza. Le spiegai che malattia avevo. «Ma io non voglio perderti» scoppiò a piangere. Be’, piansi anch’io. Ora è diventata la mia assistente. Mi porta ai congressi, mi lava, mi veste, mi fa la barba.
E i più piccoli?
Michele sapeva tutto pur non volendo sapere. Lui è un saggio. Nicolò allora aveva 8 anni. Ha sperato che il papà guarisse, Adesso comincia ad arrabbiarsi: «Sono stufo di sentirti dire agli altri che con questa malattia si può vivere».
Lavorare in ospedale la rassicura?
È casa mia.
A che ora arriva?
Alle 9. Prima restavo fino alle 19. Ora alle 16 sono esausto. Mi riportano a casa e resto a letto fino alla mattina dopo.
E i malati costretti in casa tutto il giorno?
Sì sentono murati vivi. Anch’io all’inizio mi sono isolato dal mondo per otto mesi. Ho pensato al suicidio assistito, ho anche telefonato alla Dignitas in Svizzera per informarmi sulle modalità. Ma poi mi sono detto: uè, Mela, e questo il messaggio che vuoi lasciare a chi ti ama, un gesto d’egoismo? Così sono entrato come una formichina dentro l’Aisla, l’associazione dei 4.500 italiani affetti da questa malattia anarchica che non ha una topografia e trasforma ciascuno di loro in un caso unico.
In che cosa differisce il suo impegno da quello di Luca Coscioni?
Il suo era un impegno politico. L’hanno molto strumentalizzato. L’ho detto chiaramente alla vedova Maria Antonietta, che mi ha telefonato dopo la morte del marito perchè ne raccogliessi il testimone: la battaglia di Luca non rispecchiava i nostri bisogni. La libertà di ricerca scientifica non è tutto.
Un giudizio pesante
Non vorrei apparire ingeneroso o suscitare polemiche. Però la prima cosa che feci, appena mi ammalai, fu scrivere al sito lucacoscioni.it: mai avuto risposta.
Eppure in quel sito si fa credere che «la ricerca sulle cellule staminali embrionali rappresenti una speranza di circa per malattie che colpiscono milioni di persone, come diabete, infarto, morbo di Parkinson, alcune forme di cancro, lesioni del midollo spinale, Alzheinmer, sclerosi
Ce molta malafede. E anche un po’ d’ignoranza scientifica. La libertà di ricerca è il grimaldello per far passare la sperimentazione sugli embrioni, la fecondazione eterologa, l’eutanasia, l’aborto. Tutto.
Il professor Paolo Rebulla, responsabile della Biobanca italiana dove vengono raccolti gli embrioni in sovrannumero, ha detto: «Non esiste al mondo una sola ricerca sulle cellule embrionali che si possa assodare a procedure applicabili con successo all’uomo. C’è una cellula staminale embrionale che curi il Parkinson? No, che io sappia. Una che curi l’Alzheimer? No. Una che curi il diabete? No».
Lo penso anch’io. Semmai la speranza va riposta nelle staminali adulte.
Lei è credente?
Cattolico praticante.
Se il sacrificio anche di un solo embrione fosse utile a trovare una terapia per la Sla, lei lo accetterebbe?
(Riflette a lungo). Sì. Ma dovrei avere la certezza matematica, per assurdo, che quell’ unico embrione è la soluzione. Non accetterei mai che fosse sacrificato per uno dei tanti test di laboratorio.
Non vedo la differenza: per un cattolico si tratterebbe comunque d’una persona che viene uccisa.
Ha ragione. Ha messo a nudo l’emotività del Mario Melazzini. Ma adesso mi sto raffreddando… E la risposta è no. No. La risposta è no
Che cosa la spaventa di più se pensa al suo domani?
Il fatto che qualcun altro possa decidere per me. Quindi di finire in arresto respiratorio e ritrovarmi con un tubo conficcato nella gola. Cercherò di non farmi sorprendere in ospedale, quando accadrà . Per quel che può valere, l’ho anche lasciato per iscritto: non voglio la tracheotomia.
Fu praticata anche a Papa Wojtyla.
Contro la sua volontà.
Con la cannula e la ventilazione artificiale potrebbe vivere ancora a lungo, come il fisico Stephen Hawking, che dopo 40 anni di Sla continua a insegnare a Cambridge.
Lo so. Magari in seguito cambierò idea. Ma oggi e questa la mia scelta di vita. Desidero che mia moglie, i miei figli, chi mi ama si ricordino del Mela così come adesso.
Ha mai sperato in un miracolo?
Ho sempre pregato. Ma non ho chiesto la grazia della guarigione. Lui sa quali sono i miei bisogni.
Pensa che ci siano malattie peggiori della Sla?
Sì. L’Alzheimer, per esempio. Sa che fortuna ho a poter contare su un cervello che ancora funziona? Oddio, magari se fossi stato un operaio della Fiat oggi mi ritroverei a casa, con una pensione d’invalidità, a maledire il mondo. La Sla non è come la tetraplegia che ti trasforma in un legnaccio. Conservi le funzioni cognitive, sensoriali, sessuali e sfinteriali. Però diventi un contenitore. E ogni giorno ti accorgi che qualcosa nel corpo sì spegne.
Negli ultimi giorni che cos’ha avvertito di diverso?
Quando la badante mi lava i denti, sento mancare il respiro.
Prova dolore in questo momento?
Dolore fisico? No. E spirituale? L’unica sofferenza è l’essermi lasciato trascinare dall’emozione in quella risposta sulla liceità del sacrificio degli embrioni. Sono ancora qui che ci penso… Mi spiace molto. La risposta è no.