E’ dallo scorso mese di settembre, dopo la lettera indirizzata da Pergiorgio Welby al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che in Italia è tornato il dibattito sul tema dell’eutanasia. Guardando i programmi televisivi, o leggendo i quotidiani che hanno trattato la questione, sembrerebbe che esista un’unica risposta cristiana a chi chiede di poter interrompere la propria esistenza a causa di una malattia che non abbia prospettive di miglioramento e che comporti sofferenze intollerabili; questa risposta sarebbe quella del magistero cattolico: un no fermo e deciso.
Ma è proprio vero che non esista, in una prospettiva cristiana, un’altra risposta possibile? In questo articolo vorrei condividere alcune opinioni che sento fortemente e che mi vengono non soltanto dall’approfondimento dei documenti elaborati dal “Gruppo di lavoro sui problemi etici posti dalla scienza” , ma anche e soprattutto dalla mia pratica pastorale di cappellano clinico.
Innanzi tutto vorrei fare una premessa. Non tutte le richieste di eutanasia sono davvero tali. Molte persone chiedono di essere aiutate a morire semplicemente perché nel nostro Paese il dolore fisico non viene adeguatamente trattato. In uno studio del 2002 l’Italia era al 101esimo posto nel mondo per somministrazione di morfina ai malati gravi, subito dopo l’Eritrea.
Non credo che le cose siano molto cambiate negli ultimi anni. Sebbene la morfina sia il farmaco più efficace nella terapia del dolore, siamo ancora scandalosamente indietro nel suo utilizzo. Si preferisce, quando va bene, l’utilizzo della codeina, che ne è un derivato ma non ne ha la stessa efficacia e costa addirittura di più.
Quanti malati che muoiono bestemmiando e chiedono di farla finita per le sofferenze atroci che devono sopportare, potrebbero invece andarsene in pace se il loro dolore venisse correttamente trattato?
Sono convinto che un adeguato uso dei farmaci analgesici, primo fra tutti la morfina, ridurrebbe di molto le richieste di eutanasia.
E tuttavia rimangono quei casi in cui neppure i più potenti oppiacei risolvono il problema; casi in cui ai dolori fisici si aggiungono le sofferenze esistenziali, spirituali, psicologiche, che non vengono meno neppure con la preghiera, con un adeguato accompagnamento pastorale o psicologico, con l’amorevole sostegno di amici e parenti.
Non si tratta di ragionare a partire da principi astratti. Bisogna confrontarsi con i casi concreti, con le sofferenze vere di persone reali.
Come porci allora di fronte a Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare in fase molto avanzata, che chiede di essere aiutato a morire serenamente anziché dover convivere con la prospettiva angosciosa di un’atroce morte per soffocamento?
Può esservi, in una prospettiva cristiana, una risposta diversa da quella del magistero cattolico?
La risposta cattolica Welby la conosce bene, e infatti la riporta nella sua lettera al Presidente della Repubblica, aggiungendovi però i motivi per i quali non la ritiene soddisfacente: <
Ritengo che le critiche di Welby alla posizione ufficiale cattolica siano pertinenti e che quel suo richiamo alla pietas sia condivisibile non soltanto dal laico (nel senso del non credente), ma anche dal cristiano, a qualunque confessione appartenga.
Le moderne tecnologie ci permettono oggi di prolungare, fino all’inversosimile, delle esistenze che per vie “naturali” si sarebbero già concluse da lungo tempo . E allora, si tratta veramente di prolungamento della vita o non ci troviamo, piuttosto, di fronte al prolungamento dell’agonia?
Il giorno in cui anche in Italia (come già avviene in tanti Paesi civili) sarà possibile compilare il Testamento Biologico , con il quale ciascuna persona potrà decidere per se stessa quali trattamenti medici accettare e quali rifiutare, potendo finalmente respingere in piena coscienza quelle pratiche il cui scopo sia il mero prolungamento dei propri giorni, potremo forse avere una riduzione ulteriore dei casi in cui le persone chiedono l’eutanasia. Ci auguriamo che quel giorno venga presto e dovremmo fare tutto quanto è in nostro potere affinché un tale giorno arrivi davvero!
Nel frattempo, però, quale risposta dare alla richiesta di Piergiorgio Welby?
Esiste una risposta cristiana altra, rispetto al no assoluto e immodificabile dichiarato dal magistero cattolico?
Da cristiano evangelico credo che ci siano almeno due parole di Gesù che possono guidare la nostra riflessione in vista di una risposta:
“ama il prossimo tuo come te stesso” e “come volete che gli uomini facciano a voi, fate voi pure a loro” .
Sappiamo che alla domanda “chi è il mio prossimo?” Gesù rispose con la parabola del samaritano , come a ricordare che il mio prossimo è anche colui che non la pensa come me, che non ha il mio stesso sistema di credenze e valori. E allora, non è detto che la visione etica o bioetica di una chiesa vada accettata da tutti o imposta a tutti, indipendentemente dal loro credo o in assenza di un credo. Amore per il prossimo significa, dunque, anche prenderne sul serio le domande, anche quelle scomode, e non valutarle o, peggio ancora, ignorarle a partire da principi generali fissi e immutabili.
Fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi, nel caso di Piergiorgio Welby, significa metterci davvero nei suoi panni per qualche giorno e solo allora cercare di dare una risposta che non sia spietata, cioè priva di quella pietas da lui invocata. Paradossalmente, nella situazione di Welby, la pietas, o, se preferiamo, la carità cristiana, potrebbe trovarsi non già in un rifiuto perentorio, assoluto, alla sua richiesta di por fine alle proprie sofferenze, bensì proprio nell’accoglienza di quella sua volontà.
E allora, se io fossi nei panni di Welby, vorrei che quella mia richiesta, cui da solo non posso rispondere, venisse accolta e rispettata; se mi trovassi nelle sue condizioni, vorrei che domani venisse fatto a me ciò che egli richiede oggi per se stesso.
Termino con le parole conclusive del documento del Gruppo di lavoro sui problemi etici posti dalla scienza che rispecchiano in pieno il mio pensiero e il mio sentire:
“Da quale parte sta il Dio della vita e della promessa? Dalla parte del non-senso del dolore acuto di un malato inguaribile o dalla parte del suo umano desiderio di morire? Per quanto paradossale possa essere, in una tale situazione accogliere la domanda di morte significa accogliere la domanda della vita, accogliere il diritto di morire coscientemente la propria morte. Il medico che accoglie questa domanda del malato inguaribile l’accoglie all’interno di un lungo processo di cura e di relazioni. Il medico che si rende disponibile al suicidio assistito o all’eutanasia non commette un crimine, non viola alcuna legge divina, compie un gesto umano, di profondo rispetto, a difesa di quella vita che ha un nome e una storia di relazioni.”