Siamo diventati tutti teologi finissimi, che disquisiscono su Agostino e Tertulliano, o anche biologi candidati al Nobel, pronti a giurare che la vita nasce in quel momento preciso e non in un’ altro. Vorrei ora soffermarmi su un tema morale che mi sta a cuore, anche a partire dalla scoperta di uno splendido saggio sull’Iliade. Ma prima di farlo vorrei precisare per chiarezza Che personalmente, pur convinto della necessità di elaborare una “cultura del limite” indispensabile a qualsiasi modernità critica, voterò a favore dell’abrogazione della legge (che regolamenta malamente una materia bisognosa di regolamentazione).
Siamo sicuri che Atene e Gerusalemme schematicamente:ragione e fede — rappresentino due poli antagonisti all’interno della nostra cultura e alle origini della storia d’occidente? Secondo Rachel Bespaloff,ebrea di origine ucraina nata alla fine dell’Ottocento, vissuta a Ginevra e Parigi, poi espatriata negli States e infine morta suicida nel 1949, le cose non stanno così. Per questa donna apparentemente sradicata e intelligentissima (di quell’intelligenza femminile capace di pensare la realtà senza volerla dominare) Iliade e Bibbia sono due testi egualmente ispirati (benché evidentemente il primo non nasce da una rivelazione)e che ci restituiscono la stessa verità eticoreligiosa,enunciata attraverso le metafore e i paradossi del linguaggio poetico.Di quale verità si tratta? In modo molto sintetico si potrebbe dire: l’accettazione più totale e disincantata della nostra condizione di non-potere (tesi che la Bespaloff svolge in”Dell’Iliade”, un luminoso testo del 1942 recentemente ti adotto dalle edizioni CittàAperta).
Qualsiasi essere umano, anche il più ricco, potente e fortunato, sa di non potersi sottrarre alle leggi della propria condizione,infinitamente precaria, sottomessa a un meccanismo cieco, e intuisce la “debolezza”nascosta o avvolta dentro la forza. In questo senso il male si configura, all’opposto,come l’arroganza, la hybris, l’assenza di questa “umiltà sublime”, il rifiuto di accettare la propria radicale impotenza: “Il Diodella Bibbia si lascia commuovere ma non corrompere dalle preghiere” e i “riti propiziatori possono certo placare gli dei dell’Olimpo ma non piegare il fato”.Si tratta di una verità a portata di esperienza, non implica in sé illuminazione mistica o rapporto diretto con il soprannaturale. La rilettura di profeti e tragici da parte della Bespaloff, autrice di formazione tragicoesistenzialista (Chestov. Marcei, Wahl, fino a un’infatuazione per Camus) può essere evidentemente discussa dagli studiosi di religioni e presenta alcune forzature dal punto di vista teologico, Però è singolare come negli stessi anni in cui Simone Weil scriveva il suo famoso saggio sull”‘Iliade poema della forza” — gli anni della guerra mondiale, di cui erano imprevedibili gli esiti — senta la stessa esigenza di ripensare le fonti della nostra civiltà e quasi metterle alla prova. La pagina decisiva del saggio della Bespaloff èli dove ci presenta la scena in cui Priamo si reca nella tenda di Achille a prostrarsi (nona prosternarsi!) e a chiedergli la restituzione del corpo del figlio Ettore. Così commenta l’autrice: Achille, che nel poema è quasi sempre collerico, brutale, barbarico, si lascia sciogliere dalla supplica di Priamo, acconsente alla sua richiesta e viene sommerso dalla compassione, benché non si pentì mai (l’antichità conosce non il perdono dell’offesa ma l’oblio dell’offesa). Ed è qui che”il prestigio della debolezza trionfa per un istante sul prestigio della forza”. Lo sfondo rimane tragico. Achille sa che tutti gli uomini vivono nel dolore (e questa è la base dell’unica vera uguaglianza). Il futuro riserva a ciascuno sventura e morte. Priamo ritrova ilcadavere di Ettore, eppure ha un momento di “lucidità estatica” in cui “assolve la vita nella sua totalità”. Per un attimo, al termine della notte, “il mondo stravolto ricompone la propria figura”, la bellezza trasparente (di Achille e di Priamo) può salvare dalla sofferenza e in quel momento una gioia inattesa”scioglie le membra pietrificate”. Sia Atene che Gerusalemme, in ultima analisi, credono che non esista antagonismo irriducibile tra la giustizia umana, fondata sulla verità e sulla rettitudine, e la necessità della vita, dipendente da una necessità per noi imperscrutabile. Guardiamo alla storia dell’occidente. Non è stata esattamente il contrario? E ancora oggi quel commovente “prestigio della debolezza” sembra ovunque risuonare a vuoto o tutt’al più in modo strumentale nei discorsi dei leader politici. Ma forse non va celebrato o sbandierato.
Occorrerebbe solo riconoscerlo in silenzio, meditarlo dentro di noi, traendone poi tutte le conseguenze.Uno degli argomenti in difesa della legge 40 consiste nel richiamo alla nostra capacità di riconoscere diritti a chi non li richiede,a chi non sa di averli.Argomento moralmente irresistibile e che sembra ricollegarsi a certe considerazioni di Simone Weil. Quando si discute delle differenze tra destra e sinistra ho la tentazione di definire così — sul piano anzitutto morale — una posizione di sinistra: rifiuto radicale dell’idea di grandezza che ci hanno abituato ad ammirare, ovvero grandezza come “prestigio della forza”, dominio, successo, prepotenza,ipertrofia dell’io, capacità di incidere sulla storia, vocazione a guidare gli altri. Ma vorrei anche dire a chi enuncia un principio così alto, e cioè l’astenersi da tutto il potere di cui si dispone (verso chiunque:un figlio, un proprio subordinato al lavoro,uno sconosciuto che ha meno cultura di noi, o anche l’intero mondo degli animali…): si tratta di un valore eversivo, che rimette in discussione tutta la nostra visione del mondo, che chiama a una rifondazione su nuove basi della nostra stessa civiltà, che ribalta perfino le regole della vita quotidiana. Sapremo esserne all’altezza? L’intera politica continua a fondarsi sulla forza, su ciò che — ci racconta Tucidide — gli ateniesi dissero ai poveri Ma prima di distruggerli (perché dovremmo risparmiarvi? la legge del più forte mica l’abbiamo inventata noi,ce la siamo trovata e non vediamo perché proprio noi dovremmo violarla!); e il paradigma novecentesco della “guerra”, del conflitto amico-nemico, continua a ispirare ovunque la politica.
Torniamo all’incontro Achille-Priamo.Quando le parole del vecchio padre guariscono il piè veloce dalla sua frenesia e gli smuovono le lacrime questi “ridiventa un uomo carico d’infanzia e di morte”. Omero scrive: “Allora gli prese la mano e scostò piano il vecchio; entrambi pensavano…”. E’l’unica volta, in tutto il poema, che la supplica placa il supplicato invece di esasperarlo. Così commenta la Bespaloff: ‘E’ questo,io credo, il più bello dei silenzi dell’Iliade,quei silenzi assoluti dove si inabissano il fragore della guerra di Troia, il vociare degli uomini e degli dei, il brontolio del cosmo”. Di questo silenzio, impotente e miracoloso,assoluto e impalpabile, che dura solo un istante e permane, fanno parte molte altre cose, oltre all’embrione o al pre-embrione.Innumerevoli sono nel mondo i soggetti assolutamente deboli, inconsapevoli dei propri diritti, muti e inermi. Per riconoscerli davvero occorre probabilmente riconoscere che dentro ognuno di noi c’è una parte assolutamente debole, che ogni giorno sperimenta tutta la propria disperante impotenza.