Le rivolte in carcere non sono per il coronavirus

carceri

12 detenuti morti, 40 agenti feriti e istituti danneggiati : questo il primo bilancio delle “rivolte” nelle carceri italiane a seguito dell’annuncio di una serie di misure restrittive a seguito dell’emergenza del coronavirus.

Ma siamo sicuri che questa gravissima reazione violenta sia motivata dal blocco dei colloqui di persona?I numeri dicono altro.

Alla fine di febbraio, in Italia erano ristretti 61.230 detenuti a fronte di 50.931 posti letto. Come ammette, candidamente quanto vagamente, il Ministero della Giustizia, il dato sulla capienza regolamentare delle nostre carceri “non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato”. Tradotto: almeno 5000 posti non ci sono.
Quindi abbiamo oltre 61.000 persone in strutture che, nella migliore delle ipotesi, ne possono ospitare a norma di legge 45.000; una differenze di 16.000.

Sedicimila detenuti in più rispetto a quanto prevede la Legge, e a quanto già denunciato in una “sentenza pilota” da parte della Corte europea dei diritti umani, è un problema che non deve essere presentato come “sovraffollamento”. Va inquadrato nelle sue implicazioni di rispetto della legalità costituzionale e degli obblighi internazionali dell’Italia. Questo è il problema dei problemi, tutto il resto non è che una delle conseguenze di questa patente e protratta illegalità della Repubblica italiana.

Se a questa situazione insostenibile dal punto di vista dello Stato di Diritto e della convivenza umana, si aggiunge il dato (non statisticamente comprovato) che segnala che almeno un terzo dei presenti nelle carceri italiane, quindi circa 20.000 persone, non ha una sentenza definitiva e potrebbe attendere il terzo grado di giudizio altrove, andiamo ad aggiungere illegalità a illegalità. Se poi aggiungiamo la goccia del coronavirus il minimo che possa succedere è che questo vaso ricolmo trabocchi.

E invece, l’11 marzo il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, nell’ informare il Senato sull’accaduto, ha concentrato il proprio intervento sulle conseguenze materiali e non le implicazioni generali dell’accaduto:

“Il bilancio complessivo delle rivolte è di oltre 40 feriti della Polizia Penitenziaria, a cui va tutta la mia vicinanza e l’augurio di pronta guarigione, e purtroppo di 12 morti tra i detenuti per cause che, dai primi rilievi, sembrano perlopiù riconducibili ad abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini”.

Come gli è stato fatto giustamente notare durante il dibattito che ne è seguito, l’intera informativa era ricca di dettagli sui danni materiali ma del tutto priva di analisi di contesto e di proposte per come affrontare il futuro. Allo stesso tempo tutti gli intervenuti, oltre alla doverosa solidarietà per chi ha subito violenza, si sono altrettanto immediatamente uniti in un coro che ha invocato “unità nella risposta che deve esser dura” se non esemplare. Nessuno ha inquadrato il problema nella sua dimensione storica e quindi politica. Solo punire i responsabili, ristrutturare le carceri e, semmai, accelerare la realizzazione di nuovi istituti. Se dovessimo ripercorrere la storia di queste “informative” vedremmo che questi tre ingredienti le caratterizzano da sempre salvo però non esser mai portati avanti con la necessaria certezza di risorse (giusto per dirne una).

La famigerata “sentenza Torreggiani” aveva stabilito che nelle patrie galere si praticavano trattamenti inumani e degradanti e che l’Italia avrebbe dovuto adottare misure per riparare (anche economicamente) alle violazioni dei diritti umani commesse. Se non fosse stato per la decisione della Consulta del 2014 in merito alla Legge Fini-Giovanardi, che per un paio d’anni ha rallentato gli arresti per “reati di droga”, le misure adottate da Governo e Parlamento in questi ultimi sette anni non hanno né depenalizzato (anzi!) condotte con o senza vittima, né decarcerizzato – tra l’altro prendendo letteralmente per il bavero il povero Presidente Napolitano che aveva dedicato il suo unico discorso alle Camere proprio a giustizia e carceri.

Come stiamo sperimentando in questi giorni di “auto-reclusione” o lavoro domestico e drastica riorganizzazione della nostra quotidianità, vivere in spazi chiusi senza libero accesso all’aria, se non per momenti limitati, e soprattutto nell’incertezza della durata della propria condizione mette a dura prova la resistenza psico-fisica e l’autocontrollo. Figuriamoci cosa possa accadere in luoghi dove la socialità è inesistente.


Occorre quindi non farsi ingannare da chi propone soluzioni che prevedono pene alternative o liberazioni anticipate – nel primo caso si tratta spesso di afflizioni aggiuntive e non sostitutive, nel secondo di piccoli numeri – né tanto meno bisogna star dietro a quelli che invocano la costruzione di nuove carceri nella speranza che l’emergenza del coronavirus sblocchi cantieri (con tutte le possibilità di speculazioni e corruzioni possibili) occorre piuttosto inquadrare il problema nella sua continuità storica e implicazioni di Diritto: le rivolte che in queste ore hanno interessato un quarto degli istituti di pena da nord a sud sono frutto della violazione della legalità costituzionale e degli obblighi internazionali della Repubblica italiana.


Un’ultima parola sulle morti. Secondo quanto reso noto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che colto di sorpresa non ha fatto alcuno sforzo di buon senso per affrontare una situazione radicalmente nuova, le morti dei detenuti sarebbero avvenute a seguito di cocktail mortali di psicofarmaci o sostanze utilizzate in terapie sostitutive come il metadone. Anche qui, laicamente, occorre chiarire che le “overdosi” sono relative a sostanze legali mal utilizzate. Proprio come per gli stupefacenti illegali è l’uso problematico che reca danni alla salute. Da 500 anni dovremmo sapere che “è la dose che fa il veleno”.
Ascoltato il dibattito in Senato pare difficile individuare qualche parlamentare pronto a prendere in considerazione proposte di indulto o di amnistia. Meno difficile potrebbe essere evitare “provvedimenti esemplari indiscriminati” e l’applicazione di pene a fronte di reati che non causano vittima. Poi liberazioni anticipate e domiciliari là dove possibile potrebbero ulteriormente aiutare – ma senza riforme strutturali relative all’amministrazione della giustizia a tutto tondo le rivolte non potranno che ripetersi presto.

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