Una buona legge sul Fine vita è quella che non discrimina

Intervento di Marco Gentili per il Seminario Per una buona legge sul Fine vita. Analisi e proposte di riforma in vista della discussione in Senato

Dopo le sentenze della Corte Costituzionale e l’esito di alcuni processi passati in giudicato, la possibilità di eutanasia o meglio di poter essere assistiti nel porre fine ad una vita che si è consapevolmente scelto di non proseguire è iniziata ad essere parte del nostro ordinamento giuridico. Finalmente la dovuta tutela per chi vive una condizione di fragilità, è estesa anche a chi vorrebbe veder finite le proprie sofferenze.

Un passo in avanti notevole, ma che necessita di una regolamentazione legislativa ancora mancante, per l’irresponsabilità di tanti, che finora non hanno dato seguito alle decisioni della Consulta, lasciando un tema così delicato alla possibilità di diverse interpretazioni, a seconda del luogo, del momento, del tribunale in cui in quel preciso momento veniva chiesto il riconoscimento di un diritto costituzionalmente garantito.

Ferma anche restando la visibilità mediatica del singolo caso o le condizioni economiche del richiedente: si trattava e si tratta solo di fare uscire una necessità che accomuna purtroppo fin troppe persone, dalla clandestinità, per garantire a tutti la possibilità di usufruire di un diritto alla luce del sole. La proposta di legge approvata dalla Camera dei Deputati, intitolata Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita merita alcune considerazioni, visto che si tratta di un minimo passo in avanti, al quale ci aggrappiamo dopo che il Referendum è stato negato e considerato come la legislatura stia per finire, in un particolare periodo storico oberato da decisioni riguardanti guerra e pandemia.

Forse anche in questo caso si è preferito non decidere, non apportando alcuna innovazione alla realtà dei fatti ribadita dalla Consulta e dalle sentenze dei Tribunali, limitandosi alla traduzione delle disposizioni qui contenute, persino con qualche passo indietro, che mi auguro possa essere riconsiderato. Faccio questa precisazione alla luce di quanto accaduto nelle ultime settimane, dopo la morte di Samantha D’Incà: l’innovativa decisione del Tribunale, con la nomina del padre come tutore, affinché desse seguito a quanto la figlia più volte aveva affermato durante la sua esistenza, cioè il non voler dipendere da trattamenti vitali artificiali, si fonda in particolare sulla legge riguardante il così detto testamento biologico, finora troppo misconosciuta in particolare il poter scegliere precise disposizioni anticipate di trattamento.

Francamente sono pochi i motivi per festeggiare, se non il fatto che è un passo in avanti per uscire dalla logica dominante, quella che per legge si obbliga a vivere chi vuole morire, offrendo invece per la prima volta assistenza medica per porre fine autonomamente alla propria vita. Le sentenze della Corte Costituzionale inoltre definiscono con precisione alcune condizioni per la non punibilità di chi aiuta a morire un consenziente, anche se continuano a rimanere soffocate nelle pastoie della burocrazia: quando si parla di insopportabili sofferenze fisiche e psicologiche, si rimanda sempre ad altro per decidere quando lo diventano, è qui ad esempio che il legislatore potrebbe essere più preciso.

Infatti provocatoriamente l’unico modo per porre fine ad una condizione di inutile sofferenza è essere in grado di farlo da soli, dato che l’unica fattispecie non punita è il tentato suicidio! Si dovrebbe inoltre evitare che tale proposta di legge finisca per legalizzare la discriminazione già esistente, cioè il fatto di dipendere da trattamenti salvavita, così escludendo tanti malati terminali, come quelli oncologici, nonostante la patologia irreversibile e la prognosi infausta.

Per concludere questo mio intervento voglio anche sottolineare come rimanga intatto, anzi forse si aggrava l’infinito iter burocratico per pretendere di essere aiutati a morire, pur sussistendone le condizioni. Vengono infatti stabiliti 10 passaggi, compresi l’accertare più volte la volontà del paziente, l’intervento delle direzioni sanitarie e dei comitati etici, ferma restando un’ipocrita obiezione di coscienza visto quanto sia più facile che la natura faccia il suo corso, piuttosto che vedere riconosciuto un proprio diritto costituzionalmente garantito.

A tutti voi giunga oltre il mio saluto anche il mio accorato appello affinché possano essere recepite alcune delle obiezioni suddette, così da poter alleggerire la speranza del futuro per i tanti che come me si trovano in una condizione di sofferenza tale che ironie e prese di posizione non troppo rispettose non rendono certo più rosea.