Una carta bioetica a rovescio

di Guido Ceronetti
Vivere ma non per forza

Lo spettro dell’Accanimento Terapeutico ci sta angosciando tutti. L’agonia protratta, le intubazioni le rianimazioni senza limite hanno peggiorato l’immagine della morte, sfregiato la sua antica buona fama di suprema mediatrice della ferita che è la vita.

Ci sarebbe una soluzione abbastanza semplice e molto umana. La propongo nella realistica certezza che non sarà degnata della minima attenzione da nessuna autorità politica o potere sanitario. Potrebbe tuttavia, qualche impallidito devoto di questioni morali, vagliarla.

Una legge dovrebbe vietare l’Accanimento (parola dal contenuto semanticamente terribile, evoca un branco di lupi affamati attorno a un agnello sanguinante) e fissare certi limiti di cure: oltre una data soglia di sopportabilità delle cure forti e degli interventi (compresi i trapianti in articulo mortis) su un corpo sfinito, STOP: cure esclusivamente palliative e morfina quanta ne occorre per assaporare una tregua al male, per sognare di essere altrove ‑ fino ad essere altrove davvero: honremos al Senor ‑ la negra estampa de su mano buena ‑ que ha dictado el silencio en el clamor (Antonio Machado, Siesta).

Dagli ospedali italiani (purtroppo non ci permettono più di morire in casa, così come di nascerci: un’altra espropriazione di libertà di essere come si vuole) le voci provengono rattristanti: le cure contro il dolore sono tra le più trascurate, la morfina resta, nonostante la liberazione annunciata da Veronesi, un passeggero malvisto, semiclandestino…

La morfina è mano buena in mancanza di meglio, di forza e di consolazioni d’ordine spirituale, di amore al di là del dicibile al capezza­le. Eh, meglio non contarci, sono attrezzi arrugginiti, come la falce da fieno e l’aratro. Morfina, dama bianca prezzolata… Ma, come sur­rogato, benvenuto l’Alcaloide, pur­ché senza torva lèsina, senza parsimonia sadica. Bravi quei medici milanesi che hanno dichiarato di staccare la spina quando ogni luce è spenta ma resta viva la sofferenza.

La soluzione che propongo non si ferma a questo. Se diamo per scontato, e non solo legittimo ma obbligatorio, che l’Accanimento non va praticato, diventando superflue le raccomandazioni ai curanti e ai familiari ‑ e le carte bioetiche perché non ci venga fatto questo o quell’esperimento quando è ora di tirare le cuoia ‑ il diritto assoluto del malato sarebbe di formulare un volere contrario, da rispettare fino in fondo: «Desidero che, pur di tenermi un po’ più a lungo in vita, mi sia fatto qualsiasi genere di cura» ‑ «Evitatemi sovradosaggi di morfina» ‑ «Non staccate la spina». Una carta di bioetica alla rovescia. Ma che non siano consultate le famiglie! Nove su dieci le famiglie aggiungono spina a spina, pretendono o passivamente accettano l’Accanimento. Senza dichiarazione scritta o registrata e accertata dell’unica persona interessata alla cosa, cure di compassione soltanto, rientro tra le pareti domestiche, punibile duramente ogni sperimentazione di nuovi farmaci, punibile il medico che ci persuadesse l’inverosimile.

I motivi per voler vivere senza il minimo sconto la malattia mortale o i malanni di una intera talvolta lunga vita, possono essere più d’uno. Non si tratta di basso attaccamento alla fiamma morente della candela soltanto! Ricordo la profonda impressione che mi fece La Filosofia del Dolore di René Leriche, il grande chirurgo di Lione, letta quarant’anni fa: Leriche negava alla sofferenza del corpo qualsiasi valore specifico e propugnava interventi drastici per eliminarla, ma c’è chi ritiene che la sofferenza sia un valore: una Bernadette Soubirous non avrebbe voluto le fosse tolta la sua ‑ si tratta di due opposte visioni del mondo, della vita e della morte: la stanza del malato, il luogo del morente è la trascrizione di un enigma che viene da chissà dove.

Il crimine è di non dare scampo, di non ammettere crepe e spiragli nella compattezza brutale delle tecniche terapeutiche, di non tenere in nessun conto ciò che realmente siamo, ciò che realmente vogliamo.