Procreazione assistita. Tribunale di Cagliari: “Sì alla diagnosi preimpianto”. Sentenza storica

Quotidiano Sanità
Berardi Laura

Si tratta di una sentenza storica, quella del Tribunale di Cagliari di oggi: il giudice ha infatti riconosciuto il diritto alla diagnosi preimpianto a una coppia formata da una donna affetta da talassemia major e da un uomo portatore sano della malattia. È  la prima volta che succede dall’entrata in vigore della legge 40 che regola la procreazione medicalmente assistita, fino ad oggi, la normativa infatti consentiva la pratica diagnostica solo alle coppie sterili o a quelle in cui il partner maschile avesse una malattia sessualmente trasmissibile, come l’Aids. 
 Questa la storia: i due, di cui lei malata e lui portatore sano potrebbero in base alla legge 40 accedere alla procreazione medicalmente assistita (perché infertili) e quindi anche eseguire diagnosi preimpianto per verificare prima di continuare la procedura se l’embrione è affetto dalla patologia dei genitori; eppure il laboratorio di citogenetica della struttura pubblica che doveva analizzare il campione si rifiuta di farlo. Questo il motivo che ha spinto la coppia a fare ricorso in tribunale, dove oggi il giudice gli ha dato ragione. “L’ordinanza in sostanza dice ai centri pubblici che se hai un laboratorio di citogenica attrezzato per eseguire la fecondazione assistita, ti devi dotare di strutture in grado di offrire anche la diagnosi preimpianto a chi lo richieda, o in alternativa devi legarti in convenzione con strutture sanitarie esterne”, ha spiegato Filomena Gallo, segretario dell’associazione Luca Coscioni che ha reso pubblica la notizia in una conferenza stampa. “Un passo avanti fondamentale: dei 76 centri pubblici di procreazione medicalmente assistita attualmente esistenti nessuno offre la diagnosi preimpianto, che era vietata dalla legge 40 ma poi è stata autorizzata dalle linee guida Turco del 2008 e dalle innumerevoli sentenze di questi anni”.
Una sentenza dunque che corregge un’anomalia italiana, dopo che anche la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo aveva bocciato ad agosto la stessa legge 40 perché violava l’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea dei diritti sull’uomo. In quell’occasione la coppia che aveva fatto ricorso e si era vista dare ragione dalla Corte europea era portatrice di fibrosi cistica, e aveva denunciato all’Europa che la normativa italiana gli impediva ad accedere alla diagnosi preimpianto degli embrioni.
Ad agosto, la sentenza specificava che la scelta era dovuta a un’incoerenza nella legge, che non permetteva la diagnosi preimpianto, costringendo agli aspiranti genitori di dover procedere alla cieca alla procedura di impianto degli embrioni, ma allo stesso tempo poi un’altra norma consentiva loro  di accedere a un aborto terapeutico in caso che il feto venisse trovato affetto da fibrosi cistica. Mettendo dunque la famiglia di fronte ad una situazione in cui un aspirante genitore non vorrebbe probabilmente mai trovarsi.
 Dopo la sentenza dunque, le strutture pubbliche che eseguono interventi di procreazione medicalmente assistita dovranno adeguarsi, dotandosi di attrezzature che permettono alle coppie che ne hanno bisogno, affette da malattie genetiche, la diagnosi reimpianto. “Ora si tratta di vigilare sull’applicazione di questo principio – ha aggiunto Gallo – e per questo dovremo farci sentinelle della legge. Magari con una particolare attenzione anche nel riconoscere quei centri in cui ancora non viene offerta la crioconservazione e si osserva il limite dei 3 embrioni creati, anche se non è più obbligatorio dopo la sentenza della Consulta del 2009. Tutto ciò dovrà cambiare”.