Medicina e psichiatria: La valutazione dell’efficacia delle psicoterapie: conversazione con Fabrizio Starace

MAURIZIO MOTTOLA

Nel corso del convegno "Terapia familiare: un update" (Napoli, 8 aprile 2009) è stato tra l’altro svolta la relazione "La valutazione dell’efficacia delle psicoterapie" da parte dello psichiatra Fabrizio Starace – direttore dell’Unità Operativa Complessa Psichiatria di Consultazione dell’Azienda Ospedaliera D. Cotugno di Napoli e docente di Psichiatria Sociale all’Università di Napoli – a cui abbiamo posto alcune domande.

Dato il carattere intersoggettivo, confidenziale, difficilmente narrabile a terzi delle psicoterapie, quali criteri e metodologie vanno utilizzati per valutarne l’efficacia?

L’intersoggettività e la confidenzialità sono caratteristica di tutti gli atti terapeutici; la difficile narrabilità dell’esperienza psicoterapica deve essere oggetto di riflessione e non alibi per escludere la psicoterapia dalle necessarie verifiche di efficacia, efficienza ed economicità. Nei confronti del problema vi sono due scuole di pensiero: quella di chi considera inapplicabili al campo psicoterapico le metodologie applicate in tutti gli altri interventi terapeutici (lasciando quindi ampio spazio alla autoreferenzialità) e quella invece di chi, pur consapevole delle difficoltà metodologiche, si impegna nel faticoso lavoro di comprensione dei fattori terapeutici comuni e specifici che distinguono i diversi approcci. Vorrei qui chiarire un aspetto cruciale del dibattito: ciascuno è libero di sperimentare i percorsi di crescita e maturazione individuale in cui crede se ciò avviene per iniziativa individuale e a spese proprie; ciò che non è accettabile è impegnare risorse pubbliche – quelle del sistema sanitario – senza avere ragionevole chiarezza di cosa venga fatto, per quale problema (di salute, evidentemente, anzi di salute mentale), per quale paziente, in quanto tempo e soprattutto con quali risultati. E’ proprio dall’area delle psicoterapie che ci si aspetta un contributo innovativo sui temi elencati. E tuttavia una recente revisione delle riviste di psicoterapia elenca almeno 1430 fattori di esito (!) individuati dalle diverse scuole di pensiero: un po’ troppi per consentire il sia pur minimo tentativo di razionalizzazione.

Attualmente quali risultati sono stati evidenziati nella valutazione dei vari e diversi approcci psicoterapeutici?

La letteratura scientifica è ormai ricca di dati che andrebbero applicati alla pratica clinica quotidiana. In generale la psicoterapia è un intervento potenzialmente efficace. Il passo successivo consiste nell’individuare quali approcci siano indicati per specifici pazienti. Per intenderci: sappiamo che gli antibiotici sono un presidio terapeutico efficace in numerose patologie infettive, ma sarebbe impensabile che un medico prescriva sempre lo stesso antibiotico in pazienti con differenti patologie o con antibiogrammi diversi, come pure sarebbe inammissibile se pazienti con la medesima condizione patologica venissero trattati in modo diverso da quello ottimale solo perché il medico nutre una particolare simpatia per un certo approccio terapeutico. Oggi esiste una vasta area di ricerca sugli interventi psicoterapici per i quali sono disponibili evidenze empiriche di efficacia e le stesse linee-guida per il trattamento dei disturbi psichiatrici, indicano quali sono gli approcci da preferire e quali quelli da escludere nei diversi casi. E’ possibile affermare che la psicoterapia cognitivo-comportamentale, nelle sue articolate modalità di applicazione, è l’intervento di “prima linea” per un gran numero di disturbi psichiatrici.

Oltre trecento sono le scuole di formazione in psicoterapia autorizzate dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (MIUR): quale ruolo avrebbe da svolgere la valutazione dell’efficacia delle psicoterapie in tale ambito?

La valutazione di efficacia dovrebbe precedere, anziché seguire l’autorizzazione del MIUR. In effetti a me pare che l’attenzione dedicata alla reale efficacia degli approcci proposti sia piuttosto “limitata” e che anche nella denominazione delle scuole si sia data libera espressione alla fantasia. Penso che questo sia almeno in parte conseguenza dell’ipocrisia di un sistema formativo che richiede una specializzazione per l’accesso alla professione di psicoterapeuta (e per partecipare ai concorsi pubblici per dirigente di psicoterapia del servizio sanitario), ma non allestisce un numero sufficiente di corsi di insegnamento universitario e delega l’insegnamento stesso a scuole di psicoterapia private in cui, guarda caso, insegnano nel week-end molti professori che nel resto della settimana siedono in cattedra all’università. Per non parlare del fatto che la specializzazione non è retribuita, come nel caso di medicina, ma a pagamento. Va segnalato infine che in assenza di uno straccio di programmazione l’Italia produce più psicoterapeuti dell’intera Europa: una doverosa verifica di efficacia (e di appropriatezza, nel caso di servizi pubblici) potrebbe spezzare un circolo vizioso che si auto-alimenta col metodo della catena di Sant’Antonio.