Gandhi, prima di tutto liberale.A 140 anni dalla nascita un ritratto non convenzionale

Francesco Pullia

Oggi, 2 ottobre ricorre, l’anniversario della nascita di Monhandas OKharamchand Gandhi. Sono infatti trascorsi centoquaranta anni da quando, precisamente il 2 ottobre 1869, a Porbandar, nello stato indiano del Gujarat, prevalentemente jainista, veniva alla luce colui che ha consegnato al mondo intero uno strumento, e insieme un modello, politico formidabile. Lo chiamò satyagraha, cioè "forza della verità" e si basava sull’ahimsa, letteralmente "nonviolenza".

Non ne fu di certo l’inventore, perché, come egli stesso soleva ripetere, la verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne. Nessuno può, però, negare che è con lui che la nonviolenza ha fatto irruzione nella storia nella duplice veste di articolata elaborazione e di compiuta prassi. Mentre nel mondo, a partire dalla Russia, cominciava a diffondersi il germe di quella che, ahinoi, sarebbe ben presto diventata l’epidemia, la peste del totalitarismo, Gandhi comprese lucidamente che le vere, grandi, rivoluzioni non scaturiscono dalla punta di un fucile ma dalla persuasione del singolo, dalla messa in moto di una rete comunicativa che si dirama dall’individuo e nell’individuo, nel suo coinvolgimento responsabile, ha il suo perno. Se la sua esistenza, troncata, non è mai male sottolinearlo, il 30 gennaio 1948 non da uno dei suoi numerosi e durissimi scioperi della fame ma da tre colpi di pistola sparati a bruciapelo alla Birla House di New Delhi dall’integralista indù Nathuram Godse, si manifestò, nel senso più profondo, come un continuo esperimento con la verità, fu proprio perché, incarnando sino all`estremo una visione relativistica dell’agire politico, seppe incentrarsi non sull’astratta e assolutizzata entità della massa, tanta cara alle ideologie che hanno inferto lacerazioni insanabili all’umanità del ventesimo secolo spingendola sul baratro dell’orrore, ma sull’individuo. Ed è qui che, al di là degli inevitabili superamenti segnati e dettati dai processi storici, risiede l’attualità dell’insegnamento gandhiano, cioè di una proposta metodologica che non può che definirsi liberale. Gandhi non ha nulla da spartire con il collettivismo, tanto meno con la sua Una scena del film "Ghndi" interpretato da Ben Kingsley versione terzomondista che continua a suggestionare la sinistra conducendola ad un’ermeneutica fallimentare del presente, è bene che lo si sappia. Per questo il tentativo, tanto generoso quanto, sia detto senza alcuna offesa, sprovveduto, di Bertinotti di innestare la nonviolenza sul tronco del comunismo è miseramente naufragato. Non poteva essere diversamente. Come si fa, infatti, a coniugare una teoria e una prassi, come quelle gandhiane, secondo cui il fine è sempre prefigurato dal mezzo, con una concezione, come quella comunista, che, piaccia o no, si fonda sul sangue, sui gulag, sulla privazione delle libertà inalienabili dell’individuo? In breve, come si può fare convivere il relativismo liberale con l’assolutismo dogmatico (perché tale, più del cattolicesimo, è il comunismo)? Altro che ircocervo crociano! Come lucidamente approfondirà Aldo Capitini, cui va il merito di avere introdotto nel nostro paese le tematiche della nonviolenza (il plurale è d’obbligo) tramite una teoresi originalissima culminata nella felice elaborazione della compresenza dei morti e dei viventi, il liberalismo è apertura al grado più alto di socialità e, quindi, è integrato al socialismo. Cosa che, però, non può accadere con il comunismo. Sarebbe una contraddizione in termini. Si potrà obiettare che gli ashram gandhiani siano stati, in un certo senso, strutturati secondo un’ottica collettivistica. È falso perché in queste forme di vita comunitaria prevalentemente agricole si dava molto valore all’individualità, si esaltavano le potenzialità di ognuno. Ad essere umiliato e fustigato era l`egoismo, non l’individuo. Non si può, poi, tralasciare in Gandhi la componente religiosa, componente fondamentale nella stessa articolazione della nonviolenza e cruciale nell`intera filosofia di Capitini. Ebbene, la religiosità gandhiana esprime perfettamente ciò che il laicismo dovrebbe essere e ciò che di fatto nega il confessionalismo: dialogo ovvero attraversamento e incrocio, fare sì che elementi differenti si intersechino e convergano, rendendosi funziona li all`edificazione della polis, della società. Di qui l`impronta relativistica. Non è un caso, lo ripetiamo, che sia stato ucciso da un fondamentalista. Gandhi, quindi, liberale? Perché no?