Si accampano ragioni etiche a favore del dono delle cellule staminali, ma oggi il 95 per cento delle cellule cordonali finisce nei rifiuti speciali ospedalieri
Diana, impiegata milanese di 35 anni, ha una bambina di un anno e mezzo e ha un forte desiderio di avere altri figli in futuro. La sua è una vita serena, che ora sente ancora più sicura grazie ad alcuni milioni di cellule staminali che sono state estratte dal cordone ombelicale della sua bambina, nata l’anno scorso all’Ospedale San Paolo di Milano e conservate in una "biobanca" di Anversa, in Belgio. «Sono davvero molto contenta di averlo fatto, non sapevo si potesse stipulare una "assicurazione" di questo genere sulla salute futura di mia figlia, ma quando me ne hanno parlato mi sono informata e mi sono convinta che era una scelta giusta quella di conservare queste cellule, non solo per la mia bambina, ma anche per la mia famiglia. E dopo aver saputo che hanno portato la durata della loro conservazione fino a 40 anni sono ancora più contenta. Chissà quante malattie per le quali ora si può fare poco o nulla si potranno invece curare bene da qui al 2050».
Come Diana, sono migliaia le madri italiane che ogni anno scelgono di conservare per sé, per i figli e i famigliari, le proprie cellule staminali pronte a venire utilizzate in caso di necessità per curare una serie di malattie che vanno dalla leucemia al diabete e la cui lista aumenta con lo sviluppo della ricerca medica in questo campo. «Sono però costrette a portarle all’estero perché in Italia conservare per sé le proprie cellule staminali è vietato, a seguito dell’ordinanza emanata nel 2002 dall’allora ministro della Salute, Gerolamo Sirchia – dice il professor Stefano Grossi, ginecologo, uno tra i primi a importare oltre dieci anni fa in Europa dagli Stati Uniti questo servizio e questa tecnologia -.
Negli ultimi cinque anni sono 30 mila le donne italiane che hanno affidato il proprio sangue cordonale a biobanche private con sedi in Svizzera, Belgio, Germania, Gran Bretagna e San Marino; nel 2009 sono state 8 mila e il loro numero è aumentato del 30 per cento rispetto al 2008». Una domanda di esportazione che sviluppa un giro d’affari superiore ai 50 milioni di euro e che tende a crescere anno su anno, seguendo l’aumento delle possibilità di cura che le cellule staminali potrebbero consentire. Le patologie trattabili che dieci anni fa si limitavano ad alcune forme di leucemia, anemia e linfomi sarebbero oggi diventate 86 e comprendono diversi malattie genetiche e metaboliche, tumori neuronali, traumi e paralisi cerebrali. A offrire questo servizio, che aggira il divieto normativo italiano, da taluni giudicato "ideologico", sono una ventina di società, tra cui quella di cui è responsabile nel nostro Paese il professor Grossi, che in Italia ha come principale obiettivo dichiarato la diffusione tramite convegni e comunicazioni rivolti a medici, ginecologi, pediatri e ostetrici della cultura della conservazione autologa e famigliare delle cellule staminali del cordone ombelicale.
«La legislazione nazionale è anacronistica anche sul piano economico – è l’opinione di Grossi -. Basti pensare che la conservazione per 20 anni in una biobanca europea del proprio campione di cellule, costa alla donna all’incirca 2 mila euro, una quota che comprende tutto, dal kit per il prelievo, al trasporto entro 48 ore al centro dove avviene il trattamento del sangue, fino alla conservazione. Mentre la conservazione in Italia di cellule staminali donate, in una delle banche statali messe in piedi dopo la legge Sirchia – continua Grossi -, costa ai cittadini 2 mila euro l’anno, onere al quale si deve aggiungere il costo di realizzazione della struttura (stimato in un milione di euro) e la tariffa di 8 mila euro a carico dell’ospedale al momento della richiesta delle cellule per un trapianto. Se poi si tiene conto che sul nostro territorio ci sono 17 strutture pubbliche totalmente operative (di cui solo tre sono accreditate a livello internazionale) mentre in tutto il mondo sono 120, appare evidente a tutti che tale sistema rappresenti un chiaro spreco di risorse».
Ma perché nel nostro Paese è vietata la conservazione autologa e famigliare? «Non esiste una reale motivazione scientifica – sostiene il professor Grossi -. Il governo ne ha fatto una battaglia ideologica, accampando ragioni etiche a favore del dono delle cellule staminali, ma è un argomento secondo me difficilmente sostenibile dal momento che a oggi il 95 per cento delle cellule cordonali finisce quotidianamente nei rifiuti speciali ospedalieri e che mi risulta che il sistema pubblico riesce a conservare soltanto il 25 per cento dei 90 mila campioni che sarebbero necessari. Mentre con la crioconservazione privata, che risponde a una quota crescente di domanda, si potrebbe ampliare in modo significativo il numero dei campioni a disposizione della collettività giungendo a una forma di collaborazione con il sistema pubblico».
Filosofia, questa perseguita dalla statunitense Cord:Use, banca leader nella conservazione pubblica del sangue cordonale, che da qualche mese consente ai genitori o di donare il sangue del cordone ombelicale dei loro neonati e inserirlo in un registro pubblico a disposizione dei pazienti che necessitano di un trapianto di sangue cordonale o, viste le innumerevoli applicazioni cliniche, di conservare privata mente il sangue cordonale del loro bambino. Questo darà ai genitori la possibilità di scegliere l’alternativa migliore. «Noi conserviamo 135 mila campioni in Europa e nel 2009 in Italia ne abbiamo raccolti ed esportati 3.600 – dice Grossi -. Siamo una struttura accreditata a livello europeo come banca di cellule e tessuti umani e rispondiamo agli elevati standard qualitativi giustamente imposti dalle Direttive europee vigenti e plaudiamo a questo genere di iniziative che garantiscono qualità e nuove opportunità. Insomma, mentre le nostre leggi impediscono ai cittadini di conservare liberamente, a proprie spese, le cellule staminali dei propri figli, le biobanche europee continuano, tramite le loro filiali e- organizzazioni italiane, a esportarle verso i loro centri di raccolta certificati ed accreditati dai colleghi ministri comunitari della salute».
«L’attività principale della nostra società è il marketing sanitario, cioè l’informazione al pubblico sull’opportunità della conservazione autologa e la formazione rivolta agli operatori – spiega Giancarlo Di Giovanni, amministratore delegato di un’altra azienda del settore -. Contattiamo le future mamme tramite internet, dove siamo attivi sia con il nostro sito che sui blog delle mamme e altri social network, le informiamo con un call center e le invitiamo agli incontri di informazione. Poi, ricevuto l’incarico, organizziamo tutto quanto, a cominciare dalle pratiche autorizzative per l’esportazione che sono defatiganti e durano circa due mesi, il prelievo del cordone e il trasporto alla nostra biobanca di Londra. Cosa che avviene anche al sabato e alla domenica, di giorno e di notte, un servizio che le biobanche pubbliche naturalmente non fanno. Ed è anche per questo che il loro tasso di conservazione è molto basso nonostante abbiano l’esclusiva e tre quarti dei cordoni ombelicali disponibili finiscano nei rifiuti ospedalieri». La società di Di Giovanni è attiva dal2008 e l’anno scorso ha raccolto mille kit di cellule staminali, fatturando 2,4 milioni di euro e registrando una crescita dello per cento circa. «E lo sviluppo economico potrebbe essere maggiore se venisse superata la legislazione vigente che determina il basso livello di conservazione di queste cellule staminali di cui ogni giorno si constata la necessità per la cura di gravi malattie. Prova ne sia che mentre da noi tra banche pubbliche finanziate dallo Stato, ma secondo noi inefficienti, e banche private vietate si raggiunge a malapena un tasso di conservazione del 3-4 per cento, in Paesi quali Spagna, Portogallo e Grecia si raggiungono tassi che vanno dal 22 per cento al 37 per cento».
«Una soluzione equilibrata secondo me è quella che era stata individuata dall’allora ministro Livia Turco – riprende Stefano Grossi – e che prevedeva non soltanto la coesistenza, ma anche la cooperazione tra il settore pubblico e il settore privato, dove era il mercato ad aiutare il pubblico a raggiungere l’autosufficienza lasciando i campioni conservati a disposizione della collettività, in caso di necessità. A questo scopo si era formulato un emendamento nel decreto mille proroghe del 2007, ma nel 2008 c’è stata la sua cancellazione».