Mettiamo a disposizione, per gli ascoltatori de “Il Maratoneta” su Radio Radicale e per tutti gli interessati, una selezione di notizie dal mondo della ricerca scientifica.
Potete trovare la puntata del Maratoneta di sabato 7 luglio 2018, condotta da Mirella Parachini , sul sito di Radio Radicale qui
Notizie scientifiche recenti
Elsevier, e l’open science in Europa. Un articolo dal Guardian del 29 giugno di Jon Tennant (paleontologo, attivista per l’open science) qui.
In questo documentato articolo, Tennant affronta di petto la spinosa questione dell’assegnazione, da parte della Commissione Europea, a Reed-Elsevier del compito di monitorare gli effetti delle politiche di Open access messe in piedi negli ultimi anni. A questo scopo, la Commissione ha lanciato la piattaforma Open Science Monitor (qui).
Basta una veloce analisi dei metodi utilizzati per capire che qualcosa non funziona. Il contractor privato a cui è stato affidato il compito di monitoraggio è Elsevier, ben noto nella comunità scientifica per le pratiche commerciali. E infatti non si smentisce neppure questa volta: le metriche utilizzate per il monitoraggio presentano tutte un enorme problema di bias verso i prodotti dello stesso editore. In breve, Elsevier ha deciso di utilizzare le proprie banche dati e i propri servizi di “Science Analytics” per valutare i risultati della diffusione delle pratiche di Open Access. Peccato che la scelta di indicizzare o meno una rivista in una banca dati sia, naturalmente, fatta da Elsevier stesso, e questa scelta può avere molte conseguenze. Se non indicizzo una rivista, o aggiorno in ritardo i dati che la riguardano, questa perde ovviamente di visibilità, e quindi anche se sta promuovendo attivamente politiche rivolte verso l’Open access, questo contributo non verrà rilevato dall’Open Science Monitor della Commissione.
Elsevier, del resto, ha una lunga storia di tentativi di ostacolo a tutte le iniziative volte alla promozione dell’open access. Nel 2004, per esempio, produssero un rapporto per la House of Commons in cui si sosteneva l’esistenza di rischi per la “research integrity” connessi alle pratiche di open access. Negli USA, Elsevier ha supportato, con numerosi contributi finanziari nelle campagne di vari candidati al Congresso, diversi anti-open-bills, incluso il Research Works Act (ben noto nel settore). Il conflitto di interessi dell’avere una organizzazione del genere a gestire il servizio di monitoraggio è veramente macroscopico: “Sarebbe come”, scrive Tennant, “chiedere a McDonald di monitorare le abitudini alimentari di una nazione, e poi usare questi dati come base per decidere le politiche future”. Non può funzionare.
Ma del resto, l’Italia è stata, ancora una volta in negativo, la prima della classe in questo. Dall’introduzione del sistema dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), infatti, articoli e citazioni di scienziati e ricercatori italiani vengono monitorati solo utilizzando due database proprietari: Scopus (Elsevier), e Web of Science (Thomson Reuters). Se un articolo viene pubblicato in una rivista non indicizzata, semplicemente non esiste. Idem per le citazioni ricevute e così via. Un altro enorme caso di conflitto di interessi, da anni presente in Italia, che si è diffuso, perfetto esempio di “peste italiana”, alle istituzioni europee.
Bias di genere nel mondo accademico. Tre spunti da Science.
- Male scientists are far more likely to be referred to by their last names. Di Katie Langin del 25 Giugno Qui
- My career seemed to hit a wall. Now I see that it was discrimination. Di Sharon Ramos Goyette, del 14 Giugno Qui
- Small bias, big differences. Un articolo del 2015 dello staff di Science Qui
Negli ultimi anni, il mondo della scienza ha vissuto un’importante trasformazione di apertura, verso la progressiva conquista della parità di genere. Tuttavia, se in buona parte del globo il diritto di accesso ai più alti livelli di istruzione e le pari opportunità di carriera siano stati riconosciuti, il substrato culturale sul quale sono stati costruiti è ancora fonte di discriminazioni, spesso in forme sottili, e di conseguenza meno facilmente identificabili e condannabili.
Recentissimi articoli si aggiungono al tentativo di portare consapevolezza e cambiamento, sottolineando come un tema, per quanto noto, necessiti ancora di essere approfondito e attivamente risolto.
Così Sharon Ramos Goyette riporta su Science l’esperienza della sua carriera accademica, fermatasi prima di concorrere al posto di professore ordinario in US. L’autrice descrive come “My career seemed to hit a wall “ ( la mia carriera sembrava a un punto morto), tanto da portarla a non tentare la strada dell’ordinariato senza riuscire a capirne pienamente il motivo, almeno fino a ora. Le dinamiche che si possono instaurare in un ambiente lavorativo sono spesso sommerse, difficilmente identificabili in tempo, ma possono portare a decisioni importanti, alla differenza tra raggiungere i propri obiettivi o fermarsi prima, senza avere piena consapevolezza delle motivazioni.
Gli esempi riportati riferiscono a bandi di concorso non condivisi per avanzamenti di carriera, richieste di maggiori giustificazioni per l’organizzazione lavorativa, giudizi ironici sul tempo speso per i figli, esclusione sociale nell’ambiente lavorativo. Riuscire ad esprimere, quantificare e rilevare il peso di questo tipo di atteggiamenti discriminatori è sicuramente complesso, e lascia spazio per essere rilegato all’ambito di sensazioni irrazionali. Se un ambiente più essere costantemente discriminatorio in modo leggero, sicuramente non si può dire altrettanto delle energie richieste per continuare la scalata di un muro invisibile, specialmente per donne che scelgono di avere figli.
Sempre su Science, Katie Langin riporta come recenti studi abbiano rilevato una netta predisposizione degli studenti americani per fare riferimento a professori uomini utilizzando solo il cognome, mentre per le donne tendano a specificare anche il nome di battesimo. Questo dato viene portato a indicatore di una più generale disparità nell’attribuzione di autorevolezza a professionisti appartenenti ai due generi, elemento che ha dimostrato una rilevanza materiale nel conferimento di premi e riconoscimenti.
Il bias di genere si cela in un contesto che per sua natura dovrebbe puntare a un approccio quanto più possibile privo di pregiudizi; questo come altri elementi discriminatori possono avere effetti ben maggiori della loro forza apparente. L’effetto distorcente era già stato riportato da un articolo proposto da Science nel 2015 (“Small bias, big difference”) come importante player nei processi decisionali accademici.
Senza dubbio il monitoraggio, l’(auto)critica e una maggiore consapevolezza del proprio operato non libero da pregiudizi, per quanto spesso non evidenti, è necessario e utile per eliminare il rischio di discriminazioni, almeno in accademia.
Preprints from Africa. Di Smiriti Mallapaty su Nature news. Pubblicato online il 25 Giugno qui e su Scientific American qui
Ci siamo occupati spesso, nelle precedenti puntate del Maratoneta, del complicato rapporto tra mondo accademico, inteso come l’insieme di scienziati, ricercatori e delle istituzioni per cui lavorano, e il mondo dell’editoria scientifica. Passaggio “obbligato”, quello di pubblicare tramite peer review, per chiunque intenda diffondere con autorevolezza i risultati del proprio lavoro di ricerca, ma non privo di criticità.
In quest’ottica abbiamo raccontato le crescenti difficoltà che università e istituti di ricerca hanno nello stare al passo con le esigenze commerciali degli editori: stretti fra prezzi in costante crescita per l’accesso alle riviste e controlli sempre maggiori sul budget, da anni i ricercatori cercano di far sentire la propria voce al di fuori della stretta cerchia degli addetti ai lavori. Se questo già costituisce un problema per le comunità scientifiche dei paesi più ricchi, come ad esempio la nostra Unione Europea, diventa un ostacolo totalmente insormontabile per le comunità di ricercatori dei paesi in via di sviluppo, dove spesso mancano strutture organizzate e le collaborazioni scientifiche sono un’utopia.
È proprio per cercare di dare una risposta ad una delle comunità maggiormente in difficoltà, quella africana, che nasce il progetto di cui parliamo oggi e che ha catturato l’attenzione di Nature. Si chiama AfricArxiv, ed è un repository, una banca dati, per (pre)print, codici e dati specificatamente creata per dare una maggiore visibilità alla scienza prodotta nel continente africano. Nasce dagli sforzi di Justin Ahinon, web developer e studente di statistica a Parakou, nel Benin, e di Jo Havemann, esperto di comunicazione della scienza e consulente presso una società basata a Berlino, in Germania,
La piattaforma, ospitata dai server del Center for Open Science, sfrutta un sistema noto come Open Science Framework, un software libero, open source, nato per facilitare la collaborazione a distanza fra ricercatori. L’idea è venuta agli autori durante una conferenza di soli 3 mesi fa, nell’Aprile 2018 nel Ghana, sul tema dell’Open Science, e ha già raccolto i primi volontari (12 ricercatori) che investiranno parte del loro tempo per promuovere la piattaforma e per verificare (in modo preliminare) i contenuti caricati: teniamo presente, infatti, che non si tratta – né intende sostituire – di un sistema peer-review, ma più semplicemente di uno spazio comune in cui condividere le proprie ricerche.
Il successo, o il fallimento, di questa iniziativa è chiaramente legato alla comunità che intenderà prenderne parte. Come ricorda Tolu Odumosu, ricercatore presso la University of Virginia intervistato da Nature, il problema dell’accesso a dati e fonti è assolutamente prioritario per chiunque tenti di fare ricerca in quella parte di mondo. A cui si aggiungono le “publication fees”, i prezzi che spesso vengono chiesti per la pubblicazione. Se sono un costo tollerabile per gli atenei occidentali, diventano proibitivi in altre parti del globo. Per fare un esempio, The Lancet chiede 400 USD a pagina, Cell 5000 USD ad articolo, e così via.
Naturalmente, AfricArxiv non nasce con l’ambizione di sostituirsi alle riviste più prestigiose, quanto piuttosto con l’idea di dare un senso di comunità alla scienza africana, mitigando l’isolamento in cui spesso operano e lavorano i ricercatori di quel continente.
Un ultima riflessione, che ci consente di ricollegarci al tema delle discriminazioni nella scienza, è sul pregiudizio che spesso circonda il lavoro di chi fa ricerca in paesi diversi da quelli occidentali (magari con l’aggiunta del Giappone e di pochi altri stati): non mancano infatti i resoconti di ricercatori operanti in altri paesi (dall’India alla Turchia, per fare qualche esempio) che si sono visti rifiutare lavori sottoposti a pubblicazione con risposte frettolose e superficiali, per vedere invece accettati con maggiore facilità gli articoli scritti con un coautore “occidentale”. Una indicazione, per quanto euristica, di come i tipi di discriminazione, anche nel mondo della ricerca, siano complessi e sfaccettati.
Federico Binda è membro di giunta dell’Associazione Luca Coscioni.
Classe 1988, ha studiato matematica prima presso l’Università degli Studi di Milano, poi a Parigi e infine in Germania, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in geometria algebrica nel 2016. Attualmente, lavora come ricercatore presso l’Università di Regensburg (Ratisbona, Germania). Cura, all’interno della trasmissione “Il Maratoneta” su Radio Radicale uno spazio di approfondimento su notizie di attualità internazionali dal mondo della ricerca scientifica.