Lo scopo biologico più rilevante per ogni essere vivente è la riproduzione: trasmettere il proprio patrimonio genetico alle generazioni seguenti e diffonderlo. Questo vale anche per i virus: quelli di maggior successo sono quelli che infettano e quindi si riproducono meglio creando e diffondendo il maggior numero possibile di copie del proprio patrimonio genetico. A quel fine, è opportuno che essi non eliminino gli organismi in cui possono riprodursi (p.es. l’uomo o altri animali suscettibili di infezione come nel caso di SARS-Cov-2), ma li tengano in salute sufficiente da consentirne lo sfruttamento intensivo. Ecco quindi che se qualche variazione consente al virus di infettare più e meglio ma senza uccidere, prenderà il sopravvento e si diffonderà a scapito delle altre. È quindi possibile, e forse probabile, che SARS Cov-2 assuma capacità infettive sempre più, e letali sempre meno, accentuate, fino a giungere finalmente (tra qualche anno) a forme di infezione endemica poco sintomatiche.
Ciò di cui sono conosciuti pochi precedenti rispetto a quanto stiamo osservando, è la velocità con cui i cicli di mutazione/selezione si realizzano (pochi mesi, massimo anni, nel caso delle varianti di SARS Cov 2). In passato e per organismi ben più complessi, quei cicli di mutazione e selezione erano molto più lunghi nel tempo ed i paleontologi tramite lo studio dei fossili talvolta li quantificavano in milioni di anni. Erano rari i fenomeni di evoluzione darwiniana che avvenissero in un arco di tempo così breve da poter essere osservati o almeno intuiti da un essere umano, per quanto di mente acuta, nel corso della propria vita. Se questo avveniva, finiva giustamente e rapidamente nei testi di genetica. Uno di quei rari esempi fu la selezione della mutazione di pigmentazione (da bianche a nere) delle farfalle che vivevano sui tronchi degli alberi nell’Inghilterra della rivoluzione industriale. Le cortecce degli alberi si annerirono in quegli anni a causa dello smog dovuto alle ciminiere delle fabbriche e solo le farfalle nere varianti potettero mimetizzarsi e così sfuggire agli uccelli predatori, riprodursi e diffondersi rapidamente a scapito delle loro sfortunate sorelle bianche che venivano beccate subito.
Qualcosa di simile sta accadendo anche per Homo sapiens nei paesi occidentali: in Europa per esempio stiamo assistendo ad una progressiva diffusione di patrimoni genetici varianti dovuti da una parte alla crescente denatalità delle popolazioni autoctone (p.es italiane) e dall’altra alla crescente presenza di immigrati di origine extraeuropea. Dal punto di vista genetico, questo non può che far bene alla salute della popolazione: come in molti altri campi, la immissione di diversità arricchisce la salute genetica perché varianti geniche differenti si complementano con un effetto finale di irrobustimento della salute individuale e collettiva. Ma tutto ciò può funzionare solo se rispetto e tolleranza reciproci permettono di riconoscere che altrettanti effetti benefici possono a tutti derivare dalle diversità culturali.
Guido Frosina si è laureato in Scienze Biologiche presso l’Università e la Scuola Normale Superiore di Pisa nel 1981. Ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Genetica presso l’Università di Ferrara nel 1987. Ha svolto ricerche in campo oncologico presso l’Institut Gustave Roussy – France, l’Imperial Cancer Research Fund – UK e dal 1987 è Dirigente Sanitario presso l’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova. Si occupa attualmente di radioterapia dei tumori cerebrali e di qualità ed integrità della Ricerca.