Il G7 sull’agricoltura non può esser solo un pranzo di gala. Liberiamo le biotecnologie verdi

Campo falciato con cartina Italia e scritta ogm

di Marco Cappato e Marco Perduca

I ministri dell’agricoltura del G7 che si riuniranno a Bergamo il 14 e 15 si concentreranno sulle crisi di settore relative al “mercato” e ai “fenomeni naturali”, come i terremoti, e ai cambiamenti climatici. Nelle intenzioni della presidenza italiana l’obiettivo è “fornire strumenti concreti agli agricoltori e tutelare il loro reddito in tutto il mondo”. Giustamente si parlerà anche di migrazioni legate questioni climatiche.

Secondo il Sole 24 ore il nostro Paese vive un vero e proprio boom di esportazioni del settore agro-alimentare. Tutti prodotti di alta qualità destinati principalmente ai ricchi mercati di Germania, USA, Francia e Regno Unito. Da una parte c’è quindi l’agricoltura, dall’altra l’agroalimentare. Nel primo settore, relativamente ad alcuni prodotti, come per esempio il mais, siamo in stallo se non in calo di superficie coltivata e quantitativi prodotti, nel secondo aumenta la produttività, in particolare di formaggi e prosciutti oltre che di vini, per palati raffinati e tasche capienti.

Possibile che l’Italia che promuove il suo agroalimentare non tenga di conto della sua agricoltura? Possibile.

Il famoso – e famigerato – Made in Italy è il prodotto finale, gli ingredienti che lo consentono non necessariamente sono frutto del nostro suolo. Specie per quanto riguarda prodotti pregiati per l’esportazione (tipo parmigiano e prosciutti) sempre più spesso i mangimi non solo sono importati ma sono addirittura OGM: per molti il male assoluto.

Per affrontare il tabù dei tabù degli OGM da oggi è online il sito GeniMigliori.it, che l’Associazione Luca Coscioni ha lanciato grazie al sostegno non condizionato di EuropaBio.

Le biotecnologie non si sono, fortunatamente, fermate agli OGM, negli ultimi tempi, grazie all’affinarsi della tecnologia CRISPR-Cas9, intervenire nel DNA delle piante ha reso possibile correggerne alcuni problemi genetici per migliorarne qualità e quantità. In Italia si studia ma non si può sperimentare.

All’inizio dell’anno abbiamo chiesto ai Ministri di Agricoltura, Ambiente e Salute di poter avviare un trial di riso e susine in campo aperto; alle iniziali manifestazioni d’interesse non è stato dato alcun seguito. Per approfondire quanto possibile e auspicabile relativamente alle biotecnologie verdi, al XIV Congresso dell’Associazione Luca Coscioni abbiamo dedicato tre ore di approfondimento giuridico, scientifico, agricolo e industriale con la speranza di contribuire alla conoscenza fattuale sull’agricoltura di precisione. Nessuno dei Ministeri ha ritenuto utile inviare un rappresentante.

Uno dei misteri di questo benedetto agroalimentare italiano – frutto di stringenti tutele legislative e massicci investimenti comunicativi – è che a fronte della sbandierata qualità “naturale” e “biologica”, “raccolta” o “prodotta” dietro casa, la pratica ci dice che per produrre le nostre delizie si importano maiali dalla Romania, latte da mezza Europa, grano da Canada e Ucraina e si usano i mangimi modificati geneticamente. Scelte sagge, perché la sicurezza di quei frumenti è maggiore, ma scellerate perché le importazioni transgeniche rappresentano un aggravio e uno schiaffo agli agricoltori italiani che non possono piantare prodotti geneticamente modificati.

In Europa gli OGM girano liberamente, cinque Stati membri li coltivano. Secondo la Commissione europea al 2015 oggi “sono 58 gli OGM autorizzati nell’UE a fini di alimentazione umana ed animale (tra i quali granturco, cotone, soia, colza, barbabietola da zucchero). Dei 58 fascicoli delle domande pendenti, 17 hanno ricevuto un parere positivo dall’EFSA, mentre uno ha ricevuto un parere non risolutivo”.

Come sulla sicurezza, l’immigrazione, i vaccini, la demografia o la scienza in generale, in Italia si privilegia la percezione di un fenomeno piuttosto che un’onesta analisi dei problemi che lo compongono censurando, spesso, gli approfondimenti necessari su ciò che funziona (e come) e ciò che invece abbisogna di (spesso urgenti) modifiche strutturali.

E’ chiaro che non tutte le scelte italiane nel settore agroalimentare siano controproducenti, ma nel lungo periodo non confrontarsi con la realtà dei numeri concorre a creare delle “bolle”. Tra queste c’è sicuramente quella del “biologico”. Per accompagnare il G7, sono state promosse varie iniziative: il solito dibattito con l’immancabile Vandana Shiva, “attivista del cibo” senza pedigree scientifico e le altrettanto immancabili cene con chef stellati e la moda del “bio”. L’Associazione Italiana Agricoltura Biologica ha messo al centro del G7 il “biodistretto di agricoltura sociale” portando in piazza l’agricoltura biologica “legata al territorio, capace non solo di produzioni sane e buone ma anche di offrire opportunità e dignità a persone in difficoltà”.

In un’intervista a Linkiesta di qualche mese fa, la Senatrice Elena Cattaneo, che di professione è farmacologa e biologa, a proposito del biologico, aveva ricordato che si tratta di “prodotti che coprono il 3% del fabbisogno, elitari, descritti come prodotti di successo e con vendite in aumento del 20%, il che significa passare dal 3% al 3,6% dei consumi. Ebbene, tabelle e numeri dicono che dal punto di vista nutrizionale sono pressoché identici agli alimenti tradizionali e, in quanto a sicurezza, addirittura alcuni prodotti come carote e pomodorini biologici contengono sostanze quali rame e nitrati in quantità superiori rispetto a quelli non bio” citando un’inchiesta di Altroconsumo che analizzava prodotti ottenuti da agricoltura biologica, confrontandoli con quelli da coltivazioni tradizionali.

“Vista l’assenza di differenze” si chiedeva la Cattaneo “perché far pagare i prodotti biologici tra il 75% ed il 101% in più?” meravigliandosi della decisione del governo di “promuovere e diffondere l’utilizzo di prodotti biologici nell’ambito dei servizi di ristorazione scolastica attivando mense ‘bio’ con addirittura 44 milioni di euro dallo Stato”. E poi si dice delle lobby delle multinazionali…

Tra i problemi che riguardano pienamente l’agricoltura italiana (ma forse andrebbe detto europea) resta l’intatto NO ideologico agli OGM. Nell’intervista a Linkiesta la Cattaneo ricorda che si tratta di “prodotti che la scienza ha dimostrato essere sicuri per ambiente e salute ma che dalla nostra classe politica è da sempre additati come una sorta di ‘frutto del demonio’. Intanto il nostro mais è scadente e attaccato da patogeni scarsamente debellati da cicli di pesticidi. Il risultato è che viene in gran parte buttato. E la nostra bilancia commerciale sprofonda dovendolo importare dall’estero – rigorosamente OGM – per nutrire i nostri allevamenti da cui otteniamo i buonissimi prodotti Made in Italy, tutti a base di derivati Ogm. Insomma, li mangiamo ma non li studiamo. Li importiamo ma non li coltiviamo. Non c’è nulla di normale in tutto questo”.

In effetti no, non c’è.

La FAO denuncia che la produzione mondiale di alimenti, mangimi e fibre, dovrà raddoppiare entro il 2050 per soddisfare le esigenze di una popolazione mondiale che avrà superato i nove miliardi di abitanti. La crescita demografica interessa in particolare il “sud del mondo”, zone dove l’Unione europea compra molti dei prodotti alimentari che consuma al proprio interno e dove le economie nazionali spesso vivono grazie alla cooperazione internazionale e la presenza di organizzazioni non-governative. Proprio come l’UE, molte di queste ONG non sono a favore di un’agricoltura ingegnerizzata, sicuramente non negherebbero un trattore o un sistema d’irrigazione più efficiente e nessuno, ma si oppongono alle nuove tecniche di coltivazione di piante ritenendo gli OGM non “naturali”.

Tale e tanta è l’evidenza di questo approccio anti-scientifico, oltre che anti-poveri, che nell’estate dell’anno scorso 126 Premi Nobel e altri 13000 scienziati si sono appellati a Greenpeace perché cessare le proprie attività contro il “golden rice“.

Per evitare che il G7 sull’agricoltura faccia la fine di quello sulla scienza, molto rumore per nulla a porte chiuse, ci appelliamo di nuovo al Ministro Martina perché mantenga fede a quanto annunciato: promuova una sperimentazione in campo dei saperi italiani e faccia tesoro del raccolto.