Tra le vittime della guerra all’Ucraina ci sono anche gli approvvigionamenti energetici e alimentari. Se i primi sono al centro di un dibattito quotidiano legato alle sanzioni internazionali volte a limitare le entrate che finanziano l’aggressione del regime di Putin grazie al commercio di gas e petrolio verso l’Europa, i secondi iniziano a farsi sentire per le ricadute su prezzi, scelte e regimi alimentari di mezzo mondo.
Tanto la Russia quanto l’Ucraina sono tra le maggiori produttrici al mondo di grano e mais, ingredienti necessari per sfamare esseri umani e nutrire animali. La Russia ha deciso di bloccare le sue esportazioni in vista di un conflitto prolungato, mentre l’Ucraina non può seminare né esportare perché sotto bombardamenti.
Negli ultimi due anni la pandemia aveva colpito duramente la produzione di cibo anche se non non tutte le regioni del globo avevano sofferto allo stesso modo. Nel 2020 più della metà (418 milioni) delle persone denutrite viveva in Asia, più di un terzo (282 milioni) in Africa, mentre 60 milioni erano le vittime in America Latina e nei Caraibi. Come da sempre, l’aumento più netto della fame si è verificato in Africa dove la prevalenza stimata della denutrizione (21% della popolazione) era più del doppio di quella di qualsiasi altra regione. Questa crisi andava ad aggiungersi al peggioramento delle condizioni climatiche degli ultimi anni e ora alla guerra nel “cuore dell’Europa”.
La FAO stima che la crisi in Ucraina potrebbe portare oltre 13 milioni di persone a situazioni di fame molto gravi e questo perché un terzo di quanto solitamente prodotto in Ucraina potrebbe non essere raccolto o coltivato (una perdita di circa un quinto della fornitura mondiale di grano proveniente da quel paese). Gli attacchi che si stanno protraendo nella stagione di semina fanno prevedere che anche i raccolti futuri saranno in serio pericolo. A parte la situazione ucraina, le sanzioni economiche alla Russia, il più grande produttore mondiale di grano in assoluto, hanno ulteriormente ridotto le forniture globali o, comunque, alzato il prezzo delle importazioni specie per i paesi più poveri dove i prezzi di questi beni sono spesso calmierati dai governi per evitare di acuire situazioni socio-economico e politiche critiche. Prima dell’inizio dell’invasione russa l’Ucraina rappresentava il 12% delle esportazioni mondiali di grano, il 16% di quelle di mais e il 46% della produzione mondiale di olio di girasole. Se per l’Italia il problema non si pone, per il resto del mondo sì.
La crisi dei prezzi alimentari legata alla guerra in Ucraina è solo un’anteprima di ciò che potrebbe accadere se il conflitto non dovesse essere breve oppure se si espandesse e, anche per via del ritorno ai combustibili fossili, si dovesse acuire il peggioramento del cambiamento climatico. Con l’aumento delle temperature a causa dell’aumento delle emissioni di gas serra aumenterà anche il prezzo di altri tipi di cibo. Anche per questi motivi è probabile che gli aiuti umanitari subiscano per primi ulteriori colpi. A fine marzo, il direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale, David Beasley, ha avvertito il Consiglio di sicurezza dell’Onu che l’aumento dei prezzi dei generi alimentari avrebbe anche reso impossibile il lavoro della sua agenzia impegnata a sfamare circa 125 milioni di persone in zone di carestia o conflitto.
Come se non bastasse, la Russia e la sua alleata Bielorussia, principali produttori di fertilizzanti utilizzati dagli agricoltori in tutto il mondo, o non possono vendere i propri prodotti per via delle sanzioni oppure se li fanno pagare cari e diminuire l’uso di fertilizzanti rischia di far ridurre ulteriormente i raccolti o far lievitare i costi di produzione. Se alcuni governi potrebbero sovvenzionare i fertilizzanti o il grano, o entrambi, altri potrebbero non essere in grado di farlo rischiando la fame per i propri popoli oppure sommosse come quelle delle cosiddette “primavere arabe” del 2010-2011.
L’impatto della guerra sul costo del cibo è stato tanto rapido quanto devastante. Il monitoraggio mensile della FAO relativo a marzo del prezzo di un paniere di beni di base è salito al livello più alto da quando si misura (1990) – un aumento del 60% rispetto al paniere di marzo 2021. Secondo le Nazioni Unite i prezzi dei generi alimentari potrebbero aumentare di un ulteriore 20% in parti del mondo che dipendono dalle esportazioni ucraine e russe il che implicherebbe anche prezzi più elevati per gli aiuti alimentari internazionali, creando un peso difficilmente sopportabile per contesti fragili o instabili.
A tutto questo va aggiunto il probabile peggioramento delle temperature globali i cui effetti potrebbero essere letteralmente devastanti per i paesi economicamente svantaggiati. Infatti, secondo il rapporto del febbraio scorso dell’Intergovernamental Panel on Climate Change tutti gli indicatori segnalano che la siccità sia in aumento come inondazioni e incendi anche in aree agricole un tempo affidabili, come la California e l’Europa meridionale, facendo crollare i numeri di produzione e aumentare i prezzi.
Giusto per fare un esempio che raramente viene evocato, qualche giorno fa il ministro dell’agricoltura cinese Tang Renjian ha avvertito che il raccolto di grano invernale del paese sarà scarso dopo che le regioni di coltivazione del grano sono state colpite da gravi inondazioni. Come reagirà una Cina affamata?
Le cause di questa crisi nella crisi sono chiare: da una parte l’aggressione russa all’Ucraina, dall’altra il perseguimento di monocolture in virtù della (presunta) globalizzazione dei mercati. Quel che non è chiaro è come la si possa affrontare guardando al medio lungo periodo. Malgrado si sia quotidianamente bombardati da vuote previsioni di nuovo ordine mondiale o inutili commenti sull’andamento della guerra, all’orizzonte non si vedono soluzioni che possano strutturalmente mettere in discussione questi regimi oligopolistici e i problemi che si portano dietro (o creano).
Da nessuna parte, neanche tra chi lancia dettagliati allarmi, si intravede una risposta che possa essere di segno diametralmente opposto a quanto abbiamo visto accadere dall’inizio del XXI secolo, malgrado si sia di fronte a scelte politiche ben precise di privilegio di partnership non si capisce quale sia l’alternativa alle dipendenze energetico alimentari di cui stiamo subendo le conseguenze in questi giorni. È chiaro che la soluzione non può essere un ritorno all’autarchia là dove certe colture sono possibili né il protezionismo o il razionamento delle derrate verso paesi “alleati” – anche perché come abbiamo visto ci sono decine di milioni di persone che sopravvivono grazie a interventi umanitari coordinati dall’Onu – quel che non è chiaro è che dopo questa guerra il ritorno al “business as usual” sarà molto difficile.
Senza entrare ora nel merito di come si possano prevedere, o chiudere, conflitti armati interni o internazionali scatenati da un membro permanente del Consiglio di Sicurezza, meraviglia che in giorni come questi non ci sia stata una sollevazione da parte di pensatori, strateghi o attivisti dei diritti umani a favore del godimento del progresso scientifico e delle sue applicazioni. Sembra che tutto sia ostaggio dell’ideologia o dei dogmi del passato.
Da 30 anni, specialmente negli USA, esiste una decina (scarsa) di piante prodotte grazie a modifiche genetiche che consentono maggiori rendimenti, minor consumo di terra e fitofarmaci e migliore qualità del prodotto finale, gli OGM, piante che l’Europa ha messo al bando 20 anni fa. Da una decina di anni sono state sviluppate nuove tecnologie di editing del genoma che consentirebbero la coltivazione di piante più resistenti, più nutrienti, adattabili a microclimi ostili senza imporre necessariamente prodotti o tecniche proprietarie. Una di queste tecniche, nota come CRISPR le cui inventrici hanno vinto il Nobel per la chimica nel 2020, avrebbe anche il “pregio” di abbassare i costi. Eppure, nuovamente, l’Unione europea ha deciso di normarne l’uso come se fossero degli OGM applicando a un’invenzione del 2012 regole del 2001. Fino a quando l’ideologia continuerà a guidare le decisioni non ci potrà esser un futuro sostenibile né relativamente alla pace né a tutto ciò che le guerre si portano dietro. Mai come in questo caso si applica l’abusato quesito del “se non ora quando” e l’Italia, che per una volta ha assunto decisioni drastiche, potrebbe avviare una sperimentazione in campo aperto di quel che fino a oggi importava.