Eutanasia e suicidio assistito. Le definizioni di D’Agostino strumenti per confondere e impaurire

Scatoloni contenenti firme della proposta popolare Eutanasia Legale

Il Parlamento dovrebbe prendere posizione entro il prossimo 24 settembre sul reato di aiuto al suicidio. Ma ora è in vacanza e fino a questo momento nulla ha fatto.

Seppur con la legge sul BioTestamento il legislatore italiano abbia dato una prima risposta al mutamento sociale del rapporto medico-paziente – specificatamente riguardo alla richiesta di maggiore autonomia, anche decisionale, della persona malata – resta tuttora aperta la tematica della legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito. Tema che, nonostante il dibattito sociale e giuridico dell’ultimo decennio, rimane ancora oggi fuori dall’agenda politica e istituzionale.

Iniziamo con il fare chiarezza. Di cosa parliamo quando citiamo l’eutanasia o il suicidio medicalmente assistito? Oggi su “LaVerità” il presidente emerito del Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) Francesco D’Agostino, ne dà una definizione: “La pratica eutanasica, conosciuta già dai greci in epoca precristiana, vuole dare una morte pietosa indipendentemente da una richiesta da parte del malato. Nel suicidio assistito è la persona che chiede espressamente di morire, ma non è detto che sia malato o soffra di particolari patologie“.

Questa doppia definizione di eutanasia e suicidio assistito, strumentalmente utilizzata per confondere e impaurire l’opinione pubblica, non ha alcun appiglio nella realtà italiana ed europea. Guardando le proposte di legge depositate alla Camera e al Senato, a partire dalla proposta di legge di iniziativa popolare, notiamo infatti che la richiesta di trattamento eutanasico, così come di assistenza medica al suicidio, può essere avanzata solo dalla persona maggiorenne, capace di intendere e volere, affetta da una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta a breve termine. Non è dunque possibile per le proposte in campo praticare eutanasie su persone incapaci di esprimersi che non ne abbiano fatto richiesta. Questo è un reato e prende il nome di “omicidio”, ma stiamo appunto parlando di altro.

Sbrogliato il campo da un errore fondamentale per instaurare un dibattito, possiamo definire la differenza tra eutanasia e suicidio assistito andando a vedere le azioni compiute dai sanitari. Se con l’eutanasia è il medico a somministrare il farmaco letale al paziente che ne fa richiesta, con il suicidio assistito il medico si limita a prescrivere il farmaco che sarà poi il paziente ad assumere autonomamente. In entrambi i casi, ciò avviene solo dopo una richiesta del paziente, opportune verifiche dei requisiti e dopo opportuno percorso volto alla ricerca di alternative per il trattamento della patologia o la soppressione delle sofferenze date dalla patologia.

Quest’ultimo passaggio, la ricerca di alternative, è di fondamentale importanzaDalla personale esperienza maturata in questi anni all’interno dell’Associazione Luca Coscioni, ho potuto notare come tante – ovviamente non tutte – le persone che annunciano un proprio imminente suicidio in mancanza di una “via d’uscita” legale, sono il più delle volte persone disinformate sulle loro reali possibilità e sugli sviluppi tecnologici che potrebbero esservi a supporto della loro condizione di difficoltà. Questo avviene perché, secondo la personale ricostruzione di chi scrive, la persona malata molto spesso si trattiene dal parlare liberamente delle proprie volontà con il proprio medico o con i propri familiari. Da una parte perché sa che il medico non potrà dar seguito alla sua richiesta di fine vita attraverso l’eutanasia o l’assistenza al suicidio, dall’altra perché non intende – in un momento così delicato non solo per sé – far preoccupare o far prendere provvedimenti ai familiari. Il secretare la propria volontà porta dunque inevitabilmente la persona malata a non confrontarsi con gli esperti e di conseguenza, a non entrare in contatto con l’aiuto che potrebbe arrivare dalle terapie palliative e psicoterapeutiche che questi ultimi potrebbero proporre. La mancanza di una regolamentazione dell’eutanasia o del suicidio assistito che passi per una loro legalizzazione, produce quindi una frattura ulteriore nel rapporto medico-paziente, non consentendo alla persona che esprime una richiesta di tal tipo di inserirsi in un percorso fatto di medici e psicologi che, prima di andare incontro alla richiesta dell’interessato, lavorino per trovargli tutte le alternative possibili.

Nel dire questo, a differenza di altri, non lavoriamo sulla teoria. L’ISTAT ci permette di lavorare sui numeri: secondo gli ultimi dati – dallo stesso istituto definiti sottostimati – nel decennio 2000-2009 (esclusi gli anni 2004 e 2005 per i quali non si hanno informazioni) sono stati 31.621 i suicidi in Italia. Nel solo anno 2010, dove i suicidi sono stati 3.048, il movente delle malattie fisiche e psichiche si attesta come la causa principale di suicidio con una percentuale del 46%. La stessa ragione spinge il 39% di coloro che hanno solamente tentato questo gesto.

Queste persone possono essere aiutate. Possono essere inserite in un percorso medico che, se le condizioni previste dalla legge sussistono, può aiutarle ad ottenere il suicidio assistito o l’eutanasia. Ma, trattandosi di “percorso”, dal momento della richiesta al suicidio vero e proprio, può aiutarle a trovare alternative. Alternative che, spesso ma non sempre, ci sono.