Ahmadreza Djalali non deve morire!

Il 21 ottobre, un giudice a Teheran ha condannato a morte il ricercatore iraniano Ahmadreza Djalali, ne ha dato notizia la moglie che vive in Svezia e lo hanno confermato fonti diplomatiche in Italia.

Djalali lavora all’Istituto Karolinska di Stoccolma oltre che all’Università del Piemonte Orientale a Novara. Da anni risiede nel paese nord europeo con la sua famiglia, Djalali, le cui ricerche vogliono migliorare le risposte di emergenza rispetto al terrorismo armato e alle minacce radiologiche, chimiche e biologiche, era stato arrestato nell’aprile del 2016 mentre si trovava in visita di lavoro a Teheran con l’accusa “collaborazione con un governo ostile” – Israele.

Djalali è stato condannato a spionaggio dopo un processo tenutosi in una delle “corti rivoluzionarie” dal giudice Abolqasem Salavati adesso ha 20 giorni per fare ricorso contro la sentenza.

In un articolo apparso sulla rivista Nature si scrive che esistono delle carte che ricostruirebbero il vero motivo di questa gravissima sentenza. Esisterebbe una trascrizione trascrizione di un testo scritto a mano da Djalali all’interno della terribile prigione di Evin in cui il ricercatore ritiene di essere stato arrestato per aver rifiutato di spiare per il servizio di intelligence iraniano.

Secondo quel documento, nel 2014 due rappresentanti del servizio militare e di intelligence iraniano avrebbero chiesto a Djalali di spiare i paesi europei per l’Iran – in particolare relativamente a  “infrastrutture critiche, contro-terrorismo e CBRNE [agenti chimici, biologici, radiologici, nucleari ed esplosivi] relazionando su capacità, piani operativi sensibili, e anche progetti di ricerca, rilevanti per il terrorismo”. Djalali rifiutò.

Nello stesso documento si afferma che Djalali sarebbe stato costretto a fornire false confessioni dopo “torture multiple psicologiche e fisiche”. Djalali avrebbe negati di aver mai agito contro il proprio paese né di avere operato per conto di Israele o qualsiasi altro paese. “Il mio unico difetto” scrive Djalali “è non aver accettato di sfruttare la fiducia dei miei colleghi e delle università nell’UE dove ho lavorato per spiare per i servizi di intelligence iranianoa”.

La moglie di Djalali ha minacciato uno sciopero della fame contro la sentenza. Nei quasi due anni di prigionia, Djalali ha condotto molti sciopero della fame e della sete – anche perché lo hanno obbligato a cambiare avvocato contro la sua volontà.

Simile alla vicenda di Djalali c’è quella Omid Kokabee, un fisico nucleare liberato a Teheran nell’agosto 2016 dopo cinque anni di reclusione, punito per aver rifiutato di aiutare un programma segreto di armi nucleari iraniane e quella di Hamid Babaei, dottorando in finanza in Belgio, in carcere da sei anni in Iran per aver rifiutato di spiare i suoi colleghi.

Con Filomena Gallo e Marco Cappato aveva già presentato la vicenda di Djalali ai ministri italiani che si erano recati a Tehran per una manifestazione sulla collaborazione tecnico scientifica tra Iran e Italia e aveva partecipato alla Marcia per la Scienza di Roma e Milano dell’aprile scorso chiedendo la liberazione del ricercatore iraniano.

L’Associazione Luca Coscioni chiede al Governo italiano, un Paese tra i leader della campagna mondiale per l’abolizione della pena di morte e da sempre uno dei più vicini all’Iran, di usare tutta la moral suasion di cui è nei confronti di Teheran per scongiurare l’esecuzione di Ahmadreza Djalali.