NON SIAMO ALLA «WATERLOO DELLA SCIENZA» (Eco di Bergamo)

<b>24 Febbraio 2003</b> – Prima la tragedia dello shuttle Columbia, poi la morte improvvisa della famosa pecora clonata «Dolly». Questo inizio di 2003 sembra fatto apposta per seminare dubbi sulle capacità della scienza. Ma è proprio così? Forse le cose vanno guardate un po' più da vicino se si vogliono capire davvero i fallimenti – veri o presunti – dei vari campi nei quali si articola la ricerca scientifica.
Vediamo che cosa è successo nel caso Dolly. Come sappiamo tutte le cellule di un organismo condividono lo stesso patrimonio genetico, ogni cellula ha cioè all'interno del proprio nucleo lo steso identico Dna, che lo distingue da ogni altro individuo, fatta eccezione per eventuali gemelli. Dunque una qualsiasi cellula contiene in sé il codice per ricostruire, tutto intero l'organismo ma – a seconda del tessuto in cui si trova – solo alcuni specifici geni sono attivati, cioè «accesi», mentre altri sono «spenti».

Per ottenere «Dolly» è stata presa una cellula uovo di pecora e, dopo avergli tolto il nucleo, vi è stato inserito il nucleo di una cellula somatica. Ciò tuttavia non basta per portare allo sviluppo dell'embrione, e quindi della «pecora fotocopia»: i geni della cellula cioè non si trovano nella situazione di partenza! Per innescare lo sviluppo bisogna in un certo senso «resettare» l'insieme dei geni «accesi» e «spenti». Cosa che, si è visto, si può fare con una debole scossa elettrica. Così è nata «Dolly» e, dopo di essa, svariati altri animali clonati. Dopo di che si è scatenato il bailamme. Sembrava – a leggere molti giornali e anche, per la verità, a sentire alcuni scienziati – che la clonazione fosse una tecnica disponibile, e si potesse pensare di clonare ciò che si voleva, dal gatto di casa, a se stessi.

Vero? No, totalmente falso. E per diversi motivi, anche a prescindere dagli enormi problemi etici che solleverebbe la clonazione di un essere umano, un desiderio quest'ultimo – per chi mai possa nutrirlo – che è fra l'altro frutto di un enorme abbaglio. L'abbaglio cioè legato all'idea di poter raggiungere una sorta di quasi-immortalità attraverso un altro se stesso che sarebbe il proprio clone. Ma questo, oltre che sul piano etico e spirituale, è falso perfino sotto il profilo fisico: sappiamo da tempo che le mappe cerebrali più fini, i circuiti cerebrali più complessi, non sono stabiliti geneticamente, ma si formano in risposta all'insieme di stimoli ricevuti soprattutto durante la gestazione e i primi anni di vita.

Insomma, in barba a qualsiasi aspirante clonatore o seguace dell'assurda setta dei raeliani, ogni persona è unica e irriproducibile. Ma ancor prima di tutto ciò, il fatto è che la clonazione non è affatto una «tecnica disponibile», nel senso che si è detto, ma è una «tecnica sperimentale» ancora tutta da affinare i cui «prodotti» – «Dolly» e le sue cugine clonate – devono fare i conti con una gran mole di interrogativi.

Per esempio: l'elevato tasso di malanni che affligge gli animali clonati è legato a un mancato buon «resettamento» dei geni? O al fatto che comunque il nucleo inserito conserva qualche memoria del provenire da una cellula ormai «vecchia»? L'utilità di questa tecnica non sarebbe quindi tanto quella di produrre dei cloni – fosse anche di qualche specie in pericolo di estinzione, tentativi peraltro finora non riusciti – quanto quella di approfondire i meccanismi di attivazione e disattivazione dei geni, una conoscenza che, trasportata in un altro ambito, potrebbe in prospettiva tornare proficua per intervenire su malattie o riuscire a far produrre farmaci difficili da sintetizzare direttamente nel latte di un bovino o di un ovino speciale.

Purtroppo, a volte, sotto la pressione di fattori esterni o dell'ambizione personale, anche i ricercatori – e ancora più spesso i mass media – dimenticano il senso e il modo di procedere dell'impresa scientifica e finiscono per far apparire fallimenti della scienza quelli che sono problemi di altra natura. Perfino il disastro del Columbia non è stato, a ben vedere, uno smacco della tecnologia missilistica, ma dell'apparato gestionale e amministrativo. Lo stesso si può dire – per fare un altro esempio – dell'«affare Lysenko», lo scienziato sovietico che – sotto la pressione di un imperativo ideologico del marxismo – fra gli anni Trenta e Quaranta cercò di creare, fallendo clamorosamente, una nuova genetica che fosse distante da quella «borghese» che si stava sviluppando in Occidente.

Vogliamo forse dire che la scienza non sbaglia mai? No, affatto: quando pensiamo alla scienza, pensiamo a un patrimonio di conoscenze acquisite, a qualcosa di «definitivo e sicuro». In realtà questo è solo un aspetto della scienza: certo essa mira ad arricchire e ad ampliare quel patrimonio, ma la sua essenza è il metodo che usa: di fronte a un fenomeno misterioso, fare delle ipotesi e poi tentare di controllarle. Come? Cercando di mostrare che non sono vere! O meglio, sottoponendole a una «corsa a ostacoli» per vedere quale ipotesi cade subito – ed è quindi da scartare senza indugio – e quale resiste ed è in grado di spiegare situazioni sempre più articolate.

In pratica, si cerca il limite di validità di quella ipotesi. Così, per secoli l'uomo ha pensato che la Terra fosse ferma al centro dell'universo. Copernico si convinse che i pianeti orbitassero intorno al Sole lungo traiettorie circolari. Keplero mostrò che esse sono invece ellittiche, e Newton elaborò la teoria che spiegava quell'ellitticità. Ma successivamente anche la teoria newtoniana è stata corretta dalla relatività generale di Einstein. Dunque ogni teoria, ogni legge, ogni ipotesi scientifica è sempre perfettibile e la si può considerare «scientificamente dimostrata» – nel suo ambito di validità – solo dopo aver superato decine, centinaia, a volte migliaia di test. E questo, quando si parla di ricerca scientifica, non bisogna mai dimenticarlo.

<i>di Gianbruno Guerrerio</i>