Quindici giorni dopo il mio ricovero per un’interruzione terapeutica di gravidanza che ho raccontato nello scorso numero di questo giornale, torno in ospedale per incontrare e intervistare la ginecologa che mi ha assistita, Mirella Parachini, da sempre esponente dei radicali e delle battaglie in difesa della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. Gli Altri avevano puntato il dito contro gli obiettori, così inizio da questo argomento, per arrivare poi ai grandi temi della maternità e dell’autodeterminazione.
L’obiezione di coscienza prevista dalla legge 194/78 è stata un compromesso davvero necessario?
Bisogna tornare alla storia della legge. La clausola poggia sul fatto che si varava una legge in un sistema in cui prima tutto questo non accadeva; la necessità di rispettare un organico che già potesse avere delle scelte opposte, si può quindi capire. Il problema è quanto questa norma dovesse essere transitoria, e Sansonetti fa bene a sollevare la questione: non possiamo darla per scontata. Nella struttura in cui lavoro, è stato indetto in questi giorni un bando di avviso pubblico e non si sa quanti di quelli che verranno assunti saranno obiettori, quindi io, responsabile del servizio di IVG, non so su quante forze potrò contare. Come radicali abbiamo sempre fatto le battaglie per l’obiezione di coscienza al servizio militare, col particolare però che si prevedeva un incarico alternativo: manteniamo l’obiezione di coscienza, ma non a costo zero. Una cosa che potrebbe ridurre l’obiezione selvaggia è dare agli obiettori un incarico alternativo, per esempio dei turni per la contraccezione. Noi che non facciamo obiezione, abbiamo lavoro in più, a parità di stipendio e ruoli. Mi viene quasi da dire che sono io a fare un’affermazione di coscienza.
Quali sono, oltre all’incarico alternativo, le possibili strade di contenimento dell’obiezione?
Un’altra possibile riduzione dell’obiezione trova la sua strada dentro la questione sanità pubblica e privata. In Italia l’unica prestazione sanitaria per cui non vale il ricorso alle strutture private è l’IVG e i radicali su questo hanno fatto un referendum, che è stato perso. Sulla questione pubblico/privato, sono state accesissime le discussioni con le mie amiche e compagne di battaglia: il timore era che il privato lucrasse sull’interruzione di gravidanza. Credo che i trent’anni trascorsi dall’approvazione della legge ci abbiano dato ragione. Faccio l’esempio spagnolo: più del 90% degli interventi IVG avviene nelle cliniche private convenzionate (dove il costo è di 250 curo a prestazione, tutto compreso, mentre lo Stato italiano per ogni interruzione di gravidanza spende 1200 curo), strutture in cui non c’è obiezione di coscienza e in cui la qualità del servizio si alza per poter competere con il mercato. Questo avviene anche in Olanda e in Inghilterra. So di toccare un argomento delicato, ma pensiamoci, perché questi due anticorpi – incarico alternativo e strutture private – permetterebbero forse di arginare l’obiezione.
Intravedi una schizofrenia tra ipermedicalizzazione della gravidanza e obiezione di coscienza?
In Italia sta proliferando la diagnostica prenatale, principio giusto ma di cui c’è un abuso (la media nazionale è di 6 ecografie per una gravidanza); la donna incinta viene seguita e ipermedicalizzata ma poi, quando per esempio l’amniocentesi va male, abbandonata a se stessa. Le donne dovrebbero fare pressione chiedendo al proprio medico quale sia il suo impegno in caso di esito negativo della diagnosi prenatale. Metterei quindi la questione della coscienza sul piano della serietà professionale.
Esiste una questione di potere legata alla RU486?
La RU486 pone sicuramente il terna della manipolazione, perché l’intervento chirurgico rende molto più passiva la paziente. Eppure la questione non è così semplice, perché non è che prendi la pillola e te ne vai a casa. La pillola richiede una presenza: la donna dopo aver preso la prostaglandine ha bisogno di assistenza, ha paura, ha dolori, ha perdite di sangue. Non è vero che il personale è assente, semplicemente cambia il tipo dì assistenza, che diventa meno meccanica. Non ti metto le mani addosso, non uso strumenti chirurgici ma ci devo essere. L’impegno assistenziale con l’aborto farmacologico paradossalmente è maggiore, ma di diversa natura. Questo potrebbe non favorire la disincentivazione all’obiezione. Per gli eventi medici stiamo viaggiando verso una semplificazione e una minima invasività degli interventi, per tutti tranne che per l’interruzione volontaria di gravidanza.
La destra oggi, attraverso la battaglia contro la RU486, addirittura rivendica il valore politico dell’applicazione della 194…
In tutti i paesi è una questione politica. In Francia Roussel-Uclaf ritira la produzione del prodotto nel 1988 perché boicottato dai movimenti pro-life. Il ministro della salute francese, il socialista Claude Evin, scende in campo e obbliga la farmaceutica a riprendere la produzione della pillola che è "proprietà morale delle donne". In Germania Schroeder risponde alle posizioni anti RU486 della conferenza episcopale dicendo che la questione non è negoziabile. Se in Italia avessimo una classe politica in grado di prendere tali posizioni, potremmo ristabilire correttamente il piano della discussione.
Perché tanto accanimento contro la pillola RU486?
Sicuramente si suppone che la donna quando è "sottoposta", in senso fisico materiale, venga disincentivata ad abortire, e sappiamo invece quanto questo non sia un deterrente. C’è poi il fattore punitivo: se lei soffre ed espia è un po’ meglio che se non soffre. Quando la chiesa minacciò di scomunica chi vendeva la pillola RU486, io rimasi basita. Perché, allora, non scomunicare chi vendeva le cannule per l’aspirazione? Un altro argomento su cui inviterei ad approfondire la discussione nasce dall’esperienza di due gruppi, francese e svedese, ai tempi in cui la RU venne scoperta, che tentarono un esperimento in cui si invitavano le donne ad assumere una dose minima di RU come induttore mestruale, per cui le donne non avrebbero saputo se fossero rimaste o no gravide. Gli studi non hanno potuto essere portati a termine perché non si è trovato un numero sufficiente di pazienti. Questo dimostra che l’accessibilità all’aborto non è un incentivo ad abortire.
L’interruzione volontaria e terapeutica di gravidanza è dolorosa solo per le donne o anche per il personale medico che la pratica?
Emotivamente noi siamo molto coinvolti in questa procedura, e il nodo non sta nell’impegno materiale. L’interruzione di gravidanza è la Cenerentola della ginecologia. In questo senso la Fiapac (International Federation of Professional Abortion and Contraception Associates) restituisce dignità scientifica, possibilità di ricerca, documentazione e approfondimento a una branca considerata negletta. Entrare nel merito aiuta tantissimo il medico. I nostri congressi, che ricorrono ogni due anni, sono sempre molto intensi. I medici stanno li assetati di informazioni, sono coinvolti e hanno bisogno di sapere che quello che fanno sta rientrando in una buona pratica clinica.
Perché hai scelto la professione di ginecologa?
La risposta è facile: perché mi laureavo in medicina nel 1978 – seppure all’università Cattolica – e militavo nei radicali. Ma non è stata soltanto la battaglia sull’interruzione di gravidanza a stimolarmi in questo senso. C’era la ricerca femminista sulla medicalizzazione del parto – la parola d’ordine era "riprendiamoci il parto" -, sulla contraccezione. Poche cose sintetizzano ciò che mi sta a cuore come la ginecologia. Oggi sto approfondendo tutto un risvolto sulla demografia, che studia alcuni paradossi che mettono in discussione luoghi comuni come questo: in Italia si usa meno contraccezione, si abortisce di meno, si fanno meno figli e si lavora di meno; in Francia, viceversa, c’è molta contraccezione, molti aborti e un tasso molto alto di natività. Mi affascina l’aspetto della gestione della propria vita riproduttiva, e come questa si rapporta alla dimensione sociale. Dall’individuale al sociale. C’è un bellissimo libro di Barbara Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico, dove l’ecografia viene vista come percorso di antropomorfizzazione della gravidanza, per cui questo evento, che per tanto tempo è stato privato, diventa pubblico, e la donna ne viene spossessata.
Come si possono conciliare queste teorie e pratiche femminili e femministe con la medicalizzazione della gravidanza?
Più che di non medicalizzazione, parlerei di non ipermedicalizzazione, dietro la quale si nascondono le paure della donna e del medico, paure di un evento misterioso, pericoloso e in qualche modo minaccioso. Scegliere il percorso della demedicalizzazione, vuol dire intraprende anche quello dell’accoglienza. In questa complicatissima questione, credo che l’unica strada sia l’autodeterminazione. Non può essere il medico a decidere per la donna.
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