Lombardia, bocciate dal Tar le linee guida sull’aborto

Luigi Ferrarella

Bocciate le linee guida di Formigoni: «Il termine delle 22 settimane contrasta con la legge nazionale»Sanità – Per i giudici «è illogico che ogni territorio disciplini la materia»

MILANO – «Le linee guida che abbiamo adottato come Regione Lombardia non sono certo in contraddizione con la legge 194 sull’aborto, anzi diventeremo un modello per il resto d’Italia», si diceva sicuro nel 2008 il presidente Roberto Formigoni a proposito delle disposizioni con le quali prescriveva che l’interruzione volontaria di gravidanza fuori dai primi 90 giorni, in caso di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, non potesse essere effettuata oltre la 22ª settimana più 3 giorni (dopo la quale presumeva la possibilità di vita autonoma del feto), e imponeva al ginecologo di avvalersi di altri specialisti. Ma l’auspicio di Formigoni s’infrange ora nella stroncatura del Tribunale

amministrativo regionale, che ha dichiarato «illegittima l’intera disciplina impartita dalla Regione» per contrasto con la legge statale 194, e annullato la delibera lombarda del 22 gennaio 2008. A ricorrere al Tar, facendo leva sull’articolo 117 della Costituzione che riserva alla competenza legislativa dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili o sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, erano stati 8 medici con la Cgil della Lombardia, rappresentati dagli avvocati Vittorio Angiolini, Ileana D’Alesso e Marilisa D’Amico.

Il Tar (presidente Giordano, estensore Celeste Cozzi) premette che la legge sull’aborto del 1978 contempera la tutela giuridica del concepito (ricompresa nell’articolo 2 della Costituzione sui diritti inviolabili dell’uomo) con i casi nei quali può essere sacrificata se collide con la necessità di evitare gravi pericoli alla salute della madre (articolo 32 della Costituzione che impone di dare assoluta prevalenza al bene-salute di una persona già nata): la legge fissa le condizioni al ricorrere delle quali le prestazioni del servizio sanitario debbono essere rese affinché i diritti di madre e nascituro possano essere tutelati.

Ma «per determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni», ragiona il Tar, «non deve intendersi esclusivamente l’individuazione degli standard strutturali e qualitativi delle prestazioni, ma anche (e prima ancora) delle condizioni cui è subordinato l’accesso a quelle prestazioni: sarebbe del tutto illogico permettere che una materia tanto sensibile» come l’aborto, che coinvolge scelte di fondo riguardanti valori essenziali quali "vita" e "salute", possa essere disciplinata differentemente sul territorio nazionale, lasciando che siano le Regioni a individuare, ciascuna per il proprio territorio, le condizioni per l’accesso alle tecniche abortive».

In questa cornice il Tar boccia le linee guida di Formigoni laddove, nel caso in cui la madre non sia in pericolo di vita, ammettono l’aborto terapeutico solo se vi è impossibilità di vita autonoma del feto, e cioè se non ha raggiunto un grado di maturità tale da consentirgli, una volta estratto dal grembo materno, di completare il suo processo di formazione. Mentre infatti la legge statale 194 non fissa un termine oltre il quale presumere che il feto sia in grado di condurre vita autonoma, e lascia che ad accertarlo siano caso per caso i medici, la Lombardia individua invece un termine (22 settimane e 3 giorni) oltre il quale si deve presumere, salvo prova contraria, che il feto possa avere vita autonoma. Ma così la Lombardia, osserva il Tar, «contravviene alla chiara decisione del legislatore nazionale (non frutto di una svista, ma al contrario scelta precisa, consapevole e ponderata) di non interferire in un giudizio volutamente riservato agli operatori» per «non imbrigliare in una disposizione legislativa parametri che possono variare a seconda delle condizioni sempre diverse», e «soprattutto del livello raggiunto dalle acquisizioni scientifiche e sperimentali in dato momento storico».

Le linee guida della Lombardia, inoltre, nell’ammettere l’aborto terapeutico quando una patologia può arrecare gravi pericoli alla salute fisica o psichica della madre, imponevano che l’accertamento dei gravi motivi psichici dovesse avvenire con la consulenza dello psicologo/psichiatra, e che nella consulenza alla donna il ginecologo dovesse avvalersi di altri specialisti. Ma anche qui il Tar rileva il contrasto con «il legislatore nazionale» della 194 che «ha riposto piena fiducia nella capacità di valutazione dell’ostetrico-ginecologo, anche con riferimento alla capacità di valutare i propri limiti conoscitivi, lasciando che sia tale specialista a dover decidere se avvalersi o meno dell’ausilio di altri medici».

Il Tar dichiara perciò «l’illegittimità di tutta la disciplina impartita dalla Regione, avente carattere inscindibile e unitario, e per tale ragione non suscettibile di essere annullata solo parzialmente». Cadono, dunque, anche le disposizioni regionali che imponevano che il certificato medico che diagnosticava i gravi pericoli alla salute della donna fosse redatto da almeno due ginecologi, e firmato dal dirigente della struttura per presa visione. Niente più istituzione di un registro regionale dove la diagnosi prenatale fosse confrontata con l’accertamento sul feto abortito. E stop all’indicazione di presa in carico, da parte dei servizi sanitari, non solo della donna che chiedeva di abortire ma anche della coppia e della famiglia.

Luigi Ferrarella
02 gennaio 2011
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