L’embrione non è un malato terminale.

Congelati e abbandonati. Stacchiamo la spina? No, meglio l’adozione.

Sul Corriere della Sera di ieri, Lucetta Scaraffia dava conto della diversità di vedute, nel mondo cattolico, tra chi, come Adriano Pessina, direttore del Centro di bioetica dell’Università Cattolica, si oppone all’adozione da parte di coppie e di donne sole degli embrioni congelati e abbandonati e chi, come l’ex presidente del Comitato nazionale di bioetica, Francesco D’Agostino, ritiene non solo praticabile ma desiderabile l’adozione, che dà una possibilità di vita a esseri umani scartati nelle pratiche di fecondazione in vitro. Per quest’ultima soluzione, lo scorso novembre, si era pronunciato a maggioranza il nostro Comitato di bioetica. L’astensione di tre cattolici, Adriano Bompiani, Maria Luisa Di Pietro ed Elio Sgreccia, presidente della Pontificia accademia per la vita, era stata motivata con il fatto che il documento non rispondeva pienamente alla prospettiva di una “reale garanzia di salvaguardia della vita di tutti gli embrioni concepiti” .

La salvaguardia della vita di tutti i concepiti è quindi la loro preoccupazione. Pessina, invece, ritiene che l’adozione degli embrioni abbandonati spezzi “il processo unitario che lega in una relazione esistenziale, morale e corporea, un padre, una madre e un figlio” . La loro vita nel ghiaccio andrebbe quindi considerata come accanimento terapeutico e risolta staccando la spina e accettando la loro morte. Ma gli embrioni non sono malati terminali, bensì esseri all’inizio del loro percorso vitale. Lo ricordano in modo eloquente le foto di George W. Bush attorniato da decine di bambini “fiocchi di neve”, salvati dai congelatori da donne, nella stragrande maggioranza dei casi già madri, che hanno accettato con amore di ospitare in grembo quelle vite sospese.

E’ sorprendente che lo studioso non si renda conto di come, con la sua teoria, dia un formidabile argomento a chi non vede l’ora di mettere le mani sugli embrioni sovrannumerari per la ricerca (se sono morituri, perché non considerarli come donatori di organi, cioè di staminali, come sussurrano suadenti vecchi e nuovi adepti della tecnoscienza?). E’ sorprendente, insomma, che Pessina si faccia portavoce di una visione debole e in fondo rinunciataria dell’umanità forte e piena dell’embrione e del suo diritto alla vita. Se al centro del problema c’è il bene umano, non può non essere evidente che il bene dell’essere minuscolo chiamato alla vita e poi abbandonato è quello di avere un’opportunità di nascita. A meno di non volerlo considerare un essere umano di serie B perché privato in corso d’opera di “progetto parentale”.