L’intervista alla donna che non c’è

La lettera aperta di Piergiorgio Welby ha superato gli angusti argini del dibattito tra fautori della libera scelta e avversari irriducibili dell’eutanasia sollevando una questione apparentemente non pertinente: esiste una deontologia per i giornalisti? Esistono delle regole elementari da rispettare?

Una risposta semplice e verosimilmente condivisa è raccontare la verità dopo averne accertato le fonti.

Due giorni fa su “La Stampa” è stato pubblicato un pezzo a firma di Flavia Amabile. Indignata per la dichiarazione di Marco Pannella “Gli stacco io la spina”, che è anche il titolo del suo articolo, Amabile costruisce la sua disapprovazione sulle menzogne.

Arriva addirittura a descrivere una stanza che non ha mai visto, suggerendo una familiarità inesistente (“l’appartamento è sempre lo stesso”), si spinge fino a riportare il parere di una figlia che non è mai nata e che affermerebbe di non conoscere Pannella e implorerebbe: “non ne possiamo più, lasciateci in pace”.

Sforzo di fantasia a parte, in un Paese civile la spudoratezza di questa invenzione avrebbe suscitato indignazione e forse la sospensione dall’Ordine dei Giornalisti.

In Italia quasi l’unica risposta è il silenzio e forse uno scappellotto per averla fatta davvero grossa! Con l’unica eccezione delle parole, fin troppo composte, di Mina Welby che non lasciano alcuno spazio al dubbio: “La famiglia Welby non ha concesso interviste a La Stampa, né alla suddetta giornalista, né ad altri. È totalmente infondata la notizia secondo la quale vi sia una figlia, e quindi che la stessa possa parlare a nome mio e di Piergiorgio”. E verrebbe da aggiungere: “Lasciateci in pace”.