L’Avvenire e i suicidi: pietà l’è morta

 Nei giorni scorsi ho spiegato su L’Unità , rivolgendomi ai giovani, che con il mutare del comune sentire sono stati aboliti o modificati, nel corso degli anni settanta, diversi articoli del codice penale, emanato nel 1930 in pieno regime fascista (tra gli altri, il delitto d’onore, il matrimonio riparatore e il concubinato). Dunque – ho scritto – si potrebbe intervenire anche sull’articolo 579 che punisce il suicidio assistito, così da depenalizzarlo, ma solo in due casi e a due tassative condizioni: che si tratti di un malato inguaribile; che egli richieda per sé l’eutanasia essendo nel pieno delle sue capacità mentali.
Tommaso Gomez, commentando il mio articolo su l’Avvenire, ha stravolto il mio ragionamento sostenendo che esso consentirebbe di abolire qualsiasi reato, purchè previsto da una norma molto vecchia. E dunque anche l’omicidio, vietato appunto da uno “stravecchissimo” Comandamento.
In una lettera di precisazione, ho smentito questa accusa farsesca ed ho invece ricordato il dato drammatico – di fonte ISTAT – dei circa 1000 malati terminali che ogni anno, non potendo ottenere l’eutanasia, scelgono di suicidarsi. Gomez mi ha di nuovo replicato con una serie di dati che dimostrerebbero che il vero totale è molto inferiore. In realtà, i miei dati (che due alti dirigenti dell’ISTAT mi hanno oggi confermato) sono semmai errati per difetto, visto che io ragiono solo sui suicidi “riusciti” (2.828 nel 2008) e non anche sui tentativi di suicidio, che sono addirittura più numerosi (3.327 nello stesso anno). Per non parlare del fatto che su circa 250.000 persone che muoiono ogni anno per malattie oncologiche, il 60% perisce fra atroci sofferenze per la vergognosa carenza delle cure palliative. E’ lecito ritenere che gran parte di questi sventurati malati sceglierebbe senz’altro, se fosse legalizzata, l’eutanasia?
Quel che più sorprende è però il fatto che un giornalista dell’Avvenire liquidi come irrilevante il problema dei malati terminali che si suicidano, perché non sarebbero poi così numerosi. E qui vengo al punto che più mi preme di evidenziare. Nella mia lettera all’Avvenire, a proposito dei suicidi, chiedevo: “Dove è finito il più nobile valore del cristiamesimo, la pietà?”. Gomez risponde sdegnato: “Respingo energicamente al mittente la lezione sulla pietà: per noi garantiscono la quisquilia di duemila anni di cristianesimo”. Naturalmente è vero che nella storia del cattolicesimo vi sono anche pagine ispirate alla pietà cristiana. Ma purtroppo ce ne sono almeno altrettante che nulla hanno a che fare con il crisitianesimo e ci raccontano invece storie di violenza e di sangue: dalle Crociate ai roghi e alle torture della Inquisizione. E poiché siamo in fase di rievocazione della Unità d’Italia, è bene ricordare – anche in questo caso, soprattutto ai giovani – che quando i bersaglieri entrarono a Roma ed abbatterono il potere temporale della Chiesa, nello Stato del Vaticano esisteva ancora, ed era largamente praticata, quella pena di morte che molti stati “laici” della penisola avevano abolito da tempo.
Del resto, senza tornare troppo indietro nel tempo, basta ricordare che nel dicembre del 2006 il Vaticano, spietatamente, ha negato i funerali religiosi ai familiari, credenti, di Piergiorgio Welby. E questo nello stesso mese in cui cardinali e vescovi assistevano, nella cattedrale di Santiago del Cile, alle solenni esequie di Augusto Pinochet, uno dei più brutali macellai nella tormentata storia del XX secolo. E la pietà dov’era?

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