Inclusione e nuove professioni: l’assistente personale

Giuseppina Mascaro

disabiliProsegue l’indagine di Superando.it attraverso le nuove professioni nate a partire dal processo in atto di inclusione delle persone con disabilità. Questa volta analizziamo la figura dell’assistente personale, nata dai percorsi di Vita Indipendente e considerata elemento fondamentale per l’autonomia delle persone con disabilità. Intervistiamo per questo Giuseppina Mascaro, assistente personale di Rita Barbuto, direttore di DPI Europe (Disabled Peoples’ International).

Nella visione della Vita Indipendente per cui la persona con disabilità gestisce in modo autonomo e consapevole la propria vita e la propria quotidianità, la figura professionale dell’assistente personale acquista un ruolo imprescindibile. Superando infatti la visione assistenzialistica per cui attorno alla persona con disabilità ruotavano figure che si prendevano cura della persona “malata”, l’introduzione dell’assistente personale rende concreta la visione per cui la persona con disabilità è soggetto e non più oggetto dei processi decisionali che la riguardano, a partire dalla sfera privata. L’assistente personale viene assunta dalla persona con disabilità tramite i finanziamenti dei progetti di Vita Indipendente. Il suo compito principale è quello di aiutare il suo datore di lavoro a superare i limiti della sua mobilità ridotta. È chiaro che questa professione nasce direttamente dalle esigenze che emana il processo di inclusione, promosso in tutti gli ambiti della vita sociale dalla Convenzione ONU dei Diritti Umani delle Persone con Disabilità. Parlare di inclusione significa infatti partire dalla dignità umana delle persone con disabilità che reclamano i loro diritti e doveri e che, facendo parte a pieno titolo della società civile, possono dettare quanto tutti gli altri delle regole per il suo migliore funzionamento. Chiediamo a Giuseppina Mascaro di raccontarci com’è diventata assistente personale.

«Sono studentessa universitaria, laureanda in giurisprudenza. Sette anni fa svolgevo un lavoro di segretaria che però, con i suoi orari rigidi, non mi permetteva di dedicarmi con continuità allo studio. Cercavo all’epoca un lavoro più flessibile. Ho risposto quindi a un annuncio trovato sulla bacheca dell’Informagiovani, a seguito del quale ho fatto un colloquio tradizionale con due professionisti della selezione del personale, di cui uno psicologo. Superato questo passaggio, sono stata presentata alla coordinatrice del progetto di Vita Indipendente che mi ha illustrato la proposta lavorativa e ha verificato la mia offerta, in particolare riguardo alla flessibilità nell’orario, alla disponibilità a eventuali viaggi eccetera. Infine, ho conosciuto Rita Barbuto che, vedendomi, ha detto «sì, può andare». Da lì sono iniziate delle giornate di prove fisiche di assistenza. A me sono piaciute e i responsabili hanno valutato che ero idonea al tipo di lavoro richiesto. Nel mese di marzo scorso sono passati sette anni esatti dalla mia assunzione».

Cosa ti piace di questo lavoro?
«Oltre agli aspetti di flessibilità, anche l’aspetto umano. Il lavoro di segretaria che svolgevo prima era arido. Qui invece il rapporto umano è fondamentale e per me è stato di stimolo fin dall’inizio. Per esempio, vedendo Rita vivere da sola e realizzando quindi che persone con difficoltà molto più incisive delle mie riescono ad autogestirsi, ho trovato il coraggio di seguire il loro esempio e dopo solo due mesi di lavoro come assistente personale, sono andata anch’io a vivere da sola».
Come si svolge nella quotidianità la tua professione? Come è organizzata la vita indipendente di una persona che necessita di un’assistente in modo quasi continuativo?
«In teoria Rita dovrebbe avere tre assistenti, per un monte ore totale di diciotto ore settimanali ciascuna (per due assistenti) e dieci ore per la terza. Si tratta in realtà di un monte ore basso per le sue esigenze reali, visto che ad esempio rimane a dormire da sola la notte, mentre sarebbe meglio che questo non accadesse. Inoltre, nei sette anni in cui ho lavorato per lei è capitato che non fossimo in tre a gestire il monte ore bensì in due, come ora. Fino al maggio scorso lavoravo fino a venticinque ore settimanali ma ora ho dovuto chiedere una diminuzione, che ho ottenuto, per motivi di studio. Di solito lavoro mattina, pomeriggio e/o sera, un paio d’ore per ciascun turno. Inoltre, sono a disposizione per gli accompagnamenti a convegni, incontri di lavoro e viaggi anche all’estero. Rita ha una vita molto dinamica e si sposta spesso. Con lei sono stata in Francia, Spagna e Ungheria oltre che su e giù per l’Italia».
In che cosa consiste il tuo lavoro?
«C’è una parte dedicata all’assistenza materiale. Devo spostare la persona dalla carrozzina, vestirla, lavarla eccetera. Inoltre, devo avere una serie di informazioni e competenze specifiche, rimanendo vigile a intervenire in ogni situazione».
Ad esempio?
«Ad esempio l’assistenza aeroportuale spesso non è preparata. Sto vigile perché Rita non subisca maltrattamenti e perché non le vengano negati dei diritti. In aeroporto capita che le chiedano di firmare un foglio in cui dichiara di non essere contagiosa e allora mi schiero, la sostengo. Inoltre capita che le persone con cui discute si rivolgano a me e non a lei, come se facessi da interprete a una persona incapace di intendere e volere e allora devo essere pronta a dire loro di parlare direttamente con lei».

Il lavoro di assistente personale è un lavoro in regola, di solito?
«Abito a Lamezia Terme in provincia di Catanzaro, dove è difficile trovare lavori in regola. Però noi assistenti di Rita abbiamo un contratto co.co.pro., una forma contrattuale debole – nel senso che non abbiamo diritto a ferie pagate e solo limitatamente alla tutela in caso di malattia – però legale, attraverso cui riceviamo contributi soprattutto regionali per il progetto di Vita Indipendente».
La tua formazione è finalizzata alla professione di assistente personale?
«Sono laureanda in giurisprudenza e non ho una formazione finalizzata alla professione di assistente personale, anche se la mia preparazione universitaria mi aiuta ad affrontare situazioni che hanno a che fare con la giustizia sociale e il rispetto dei diritti umani. Negli anni, però, anni ho accompagnato Rita a molti convegni sull’assistenza e sulla Vita Indipendente e perciò posso dire di aver ricevuto in tal modo una formazione teorica. Inoltre, io, Rita e un’altra assistente abbiamo dato vita per prime alla possibilità di far vivere fuori casa una persona con disabilità grave e in questo senso mi sento “pioniera”».
Quali sono le competenze di un assistente personale?
«Innanzitutto la capacità di ascolto. Non basta avere una preparazione teorica perché ogni disabilità è a sé e ogni persona ha esigenze proprie. Poi occorre elasticità per potersi quasi “plasmare” sulla disabilità dell’altro, mettendosi in sintonia con le sue esigenze. Ancora, è importante mantenere un certo distacco emotivo per avere la prontezza di risolvere i problemi e non farsene soverchiare emotivamente. Occorre anche riservatezza perché si entra nell’intimità della persona. Infine, secondo me, è importante avere un equilibrio mentale personale».
Perché?
«A volte la persona con disabilità pretende delle cose che l’assistente, dal punto di vista della propria dignità personale, non può permettersi, nel senso che non può farle “da maggiordomo”. È una problematica che affronto spesso con quelle mie colleghe che non hanno la consapevolezza della dignità del proprio lavoro. Si lamentano “alle spalle”, ma non riescono a esprimere il malcontento con il datore di lavoro e puntualmente succede che a un certo punto crollino a livello psicologico. Nel progetto di cui faccio parte c’è una persona di riferimento per il sostegno psicologico, ma spesso è capitato a me di offrire aiuto alle colleghe, spronandole a non farsi mettere i piedi in testa. Nella ricerca dell’equilibrio finale tra persona con disabilità e assistente si possono creare delle situazioni ambigue che vanno affrontate. Negli anni ho visto che le difficoltà sono soprattutto quelle iniziali, riferite a questa fase di “assestamento”. È qui che molti mollano e non per la pesantezza materiale del lavoro, che pure c’è, ma per il confronto psicologico difficile».
Puoi farci l’identikit dell’assistente personale in base alla tua esperienza e alle tue conoscenze personali?
«Pochissime persone hanno una formazione specifica all’assistenza, anche perché manca un percorso professionale riconosciuto per la figura nuova di “assistente personale all’interno dei progetti di Vita Indipendente”.Moltissimi assistenti sono stranieri, specialmente romeni o comunque provenienti dai Paesi dell’Est e con alcuni, che non parlano l’italiano, nascono problemi di comunicazione. Di italiani ne ho incontrati pochi, forse anche perché i nostri connazionali giudicano questa professione come “socialmente squalificante”. Ci sono molti preconcetti per cui veniamo assimilati a figure come quelle della cameriera. Di solito i disabili vengono visti come “strani” e perciò anche chi lavora per loro viene visto come “strano”. Molti, poi, capitano a fare questo mestiere perché non trovano altro, ma non sono veramente interessati. E si nota. Ho visto in più occasioni assistenti rivolgersi quasi con disprezzo alla persona con disabilità per cui lavorano. Le età degli assistenti sono le più varie, dai venti ai sessant’anni. Sono soprattutto di sesso femminile, ma non è una regola: molti uomini preferiscono scegliersi un assistente dello stesso sesso».

In un corso di formazione ideale per assistente personale che insegnamenti considereresti obbligatori?
«Metterei a punto un percorso che facesse comprendere all’aspirante assistente che la persona con disabilità è al centro, si sa autogestire, ha i suoi diritti e sa quello che vuole. Poi cercherei di essere specifica perché ogni disabilità ha caratteristiche che vanno trattate a sé».
Ritieni che la retribuzione media di un assistente sia congrua?
«Sottolineando che ufficialmente non esiste la professione di assistente personale e non c’è un conseguente riconoscimento di categoria, posso dire che secondo me dal punto di vista materiale il compenso è congruo ma, dal punto di vista di relazione, no. Un assistente capace di creare una situazione di crescita e scambio continuo fa un lavoro molto più complesso e andrebbe pagato di più. Ma di solito viene realizzata solo l’assistenza materiale e, da questo punto di vista, ripeto, il compenso è congruo».
Credi che sarà il lavoro della tua vita?
«Non credo. È un lavoro usurante dal punto di vista fisico. Richiede molte energie e penalizza la schiena perché occorre spostare la persona con disabilità più volte al giorno. Io alzo Rita dalle sei alle otto volte al giorno praticamente senza interruzioni da più di sette anni. Inoltre, riconosco l’esigenza anche di una pausa a livello mentale, perché è un lavoro coinvolgente a tutti i livelli. Però in giurisprudenza sono nati dei corsi di Bioetica e Disabilità e vorrei specializzarmi in questi aspetti».
A che punto è il processo di inclusione delle persone con disabilità? Hai notato un’evoluzione durante i tuoi sette anni di carriera da assistente personale?
«Noto una sensibilità e un’integrazione crescente tra i singoli individui, ma, dal punto di vista dell’Amministrazione Pubblica, non siamo andati molto distanti dal punto zero. Gli operatori commerciali continuano ad aprire nuovi esercizi inaccessibili, ottenendo licenze dalle amministrazioni. E poi a Roma, ad esempio, i taxi accessibili costano tre volte tanto quelli non accessibili, ma le persone con disabilità sono spesso costrette a prenderli comunque perché i mezzi pubblici, gli autobus, di solito o non hanno la pedana o ce l’hanno rotta».