Come sempre, il diavolo si cela nel dettaglio. Per evidenziare la deriva laicista che starebbe per travolgere il Partito democratico, Francesco D`Agostino, già presidente del Comitato nazionale di bioetica, nell`editoriale di ieri di Avvenire, invita a considerare «quale sia l`antropologia di Umberto Veronesi» (capolista per il Senato in Lombardia). da un po’ di tempo, l’antropologia viene strapazzata e richiamata a sproposito, ma qui colpisce l’uso "riduzionistico" che ne fa D’Agostino, che pure del riduzionismo si dichiara fiero avversario.
Dunque, l’antropologia di Umberto Veronesi viene ridotta da Avvenire ad alcune posizioni e dichiarazioni pubbliche in contrasto con il magistero della chiesa; dell’antropologia di Veronesi, invece, non farebbe parte ciò che è fondativo della sua identità, del suo ruolo professionale, del suo statuto di ricercatore e, infine, della sua qualità morale: ovvero il fatto che, da oncologo, ha dedicato mezzo secolo di vita e di scienza, di terapia e di sperimentazione alla cura delle patologie tumorali; e che in questo campo ha ottenuto straordinari successi, restituendo salute e – alla lettera – vita a migliaia di donne e di uomini.
Quale vertigine politicante e faziosa può avere indotto l’editorialista del quotidiano dei vescovi a ignorare tutto ciò per screditare quello che assume come un avversario politico? E ancora l’antropologia: essa viene nuovamente evocata a proposito dei radicali, ma è possibile che – dopo cinquanta anni di loro presenza nello scenario nazionale e sovranazionale – si vogliano tuttora ignorare le tracce "cristiane" (magari eretiche, ma non per questo meno cristiane sotto il profilo culturale) nell’azione di quel partito? A ben vedere, è forse possibile ipotizzare che l’impegno contro la pena di morte sia risultato, negli ultimi decenni, più tematica radicale che cristiana per il fatto che il Catechismo della Chiesa cattolica conservasse, in materia, esitazioni e reticenze sino ad appena qualche tempo fa.
E non solo: quel "riduzionismo" sembra condizionare in profondità la lettura complessiva delle scelte politiche e della politica stessa come funzione pubblica da parte di settori delle gerarchie ecclesiastiche: l’intera politica viene ridotta alle scelte sulle questioni definite sciaguratamente "eticamente sensibili" (che corrispondono, in realtà, alla corposa concretezza di diritti civili e garanzie sociali): e queste ultime, a loro volta, vengono tradotte in precettistica morale, in manualistica sessuale, in prontuario di stili di vita e di relazione. Ciò ottiene l`effetto – invero disastroso – di banalizzare quelle che sono, sì, grandi questioni etiche in un causidico codice di comportamento: e di disciplinarle in un sistema di veti e divieti.
I grandi temi della contemporaneità, e quello terribile dello sviluppo scientifico e delle sue potenzialità e dei suoi limiti, e le "questioni di vita e di morte" nascere, crescere, ammalarsi, curarsi, procreare, soffrire, decadere, invecchiare, deperire, morire … esigono libertà di mente e passione per la verità; e incontro e scambio tra antropologie diverse (e qui il termine va inteso nel suo proprio significato).
Come possono i cristiani non comprendere che l’amore per la vita e la cura per la sofferenza dell’oncologo Veronesi e di molti come lui è parte di una cultura condivisa? E che, su un altro piano, la testimonianza di vita e di morte di Piergiorgio Welby appartiene loro ed è, per loro, "segno di contraddizione", nonostante tutti i tentativi fatti per sottrarvisi? Analogamente, per me e per tanti come me, la folla dolente e colma di speranza che si ritrova a Lourdes o i familiari che assistono da venti anni la donna in stato vegetativo permanente e non vogliono saperne in alcun modo di interrompere le cure, non esprimono affatto una "antropologia diversa" e tanto meno disprezzabile.
Appartengono alla mia stessa condizione umana (e, se volete, antropologica): e al `dolore del mondo". Se si volesse assumere un tale punto di vista, anche la questione dell’aborto – sul quale sempre Avvenire inventa un falso che non c’è a proposito di un documento firmato dagli ordini dei medici – potrebbe essere affrontata con intelligenza.
Nessuno, proprio nessuno, nega che l’interruzione volontaria della gravidanza sia un disvalore: e la sua regolamentazione per legge non traduce un disvalore in valore. La normativa intende ridurre le conseguenze individuali e sociali di una pratica clandestina, attraverso politiche pubbliche ispirate a quella concezione giuridica, sanitaria e culturale, ma che ha un suo fondamento anche teologico, che è la riduzione del danno.
Ovvero secondo la dottrina cattolica, il perseguimento del `male minore": è ciò che indusse, all’epoca, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede a prendere in considerazione la liceità morale di una legislazione perla depenalizzazione dell’aborto: ipotesi infine respinta, ma seriamente analizzata. Ecco, forse è quel documento di oltre trenta anni fa che sarebbe utile rileggere oggi: c’era più sapienza antropologica in quelle righe che in tanti articoli di queste ore.