Sono trascorsi quasi sei anni dalla sua approvazione, è sopravvissuta a uno dei più vivaci referendum della Seconda Repubblica, è stata fatta oggetto di innumerevoli istanze di legittimità costituzionale da giudici e avvocati e, l’anno scorso, anche di una importante sentenza della Suprema Corte, ma la legge sulla procreazione assistita non smette di far discutere. Di recente la sentenza di un giudice di Salerno ha innescato l’ultimo vespaio di polemiche. In pieno contrasto con la legge, il giudice ha infatti autorizzato, per la prima volta in Italia, la diagnosi genetica preimpianto a una coppia fertile portatrice di una grave malattia ereditaria, l’atrofia muscolare spinale di tipo 1.
La coppia, dopo quattro lutti, si è rivolta al giudice perché, come è noto, la legge 40 del 2004 limita le pratiche di procreazione assistita solo ai casi di sterilità e di infertilità e, in ogni caso, vieta esplicitamente qualsiasi tentativo di diagnosi dell’embrione prima del suo impianto nell’utero materno. La selezione embrionale è vietata per due ragioni:
1. Perché la tutela del «concepito» è equiparata alla tutela della donna (art. 1);
2. Perché la selezione tra embrioni malati ed embrioni sani potrebbe fare da preludio a una “deriva eugenetica” (art. 13).
Ebbene, il giudice ha ribaltato completamente l’impianto legislativo.
Ecco cosa ha scritto nelle motivazioni: «Il diritto a procreare e lo stesso diritto alla salute dei soggetti coinvolti, verrebbero irrimediabilmente lesi da una interpretazione delle norme in esame che impedissero il ricorso alle tecniche di Pma (procreazione medicalmente assistita) da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che però rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili; solo la Pma, attraverso la diagnosi preimpianto, e quindi l’impianto solo degli embrioni sani, mediante una lettura "costituzionalmente" orientata dell’art. 13 della legge, consentono di scongiurare simile rischio». Per il giudice il diritto alla salute della donna prevale rispetto a quello del concepito. Eugenia Roccella, sottosegretario alla Salute, ha reagito con parole durissime, affermando che per questa strada «si introduce un principio di eugenetica, e si dà un minor valore alla vita dei disabili». Chi ha ragione?
Ovviamente le questioni da affrontare sarebbero molte e complesse, ma per economia di ragionamento ci limiteremo a riflettere solo su una di esse. E cioè: la selezione embrionale conseguente a una diagnosi preimpianto infausta (come nel caso della coppia che si è rivolta al giudice salernitano) a quali criteri risponde? Eugenetici o terapeutici?
A rigore essa è un caso di eugenetica negativa: si evita la trasmissione di tratti genetici indesiderabili. Ora, poiché il non trasmettere tratti genetici indesiderabili non è ritenuta di per sé un’azione moralmente illecita (altrimenti dovrebbero essere considerati moralmente biasimevoli tutti coloro che sapendo di essere portatori di malattie genetiche evitano di avere una prole), si deve dedurre che è il mezzo adoperato per raggiungere questo scopo che determina l’illiceità dell’atto. È cioè la selezione a «turbare gli animi», come ha scritto giustamente il filosofo Jurgen Habermasm secondo cui «la diagnosi preimpianto esemplifica un pericolo che si collega alla prospettiva di un allevamento razziale e selettivo dell’uomo». Ma nel caso di una coppia portatrice di malattie ereditarie che volesse ricorrere alle tecniche di PMA, e che volesse conoscere lo stato di salute degli embrioni per decidere eventualmente di non impiantare quello affetto dalla temuta patologia, che senso attribuire alla scelta selettiva? Quello di selezionare una progenie migliore oppure quello di rispondere alla necessità di tutelare la salute psico-fisica della donna?
È il caso di accennare che la legge 194/78 consente l’interruzione volontaria di gravidanza, anche dopo novanta giorni, nel caso in cui «siano accertati processi patologici, […] che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna» (art. 6, lettera b). In questa situazione non è il “miglioramento della specie” ma è l’esigenza di tutelare la salute della donna a rendere giuridicamente lecita e, per molti stranieri morali, eticamente accettabile la scelta di non portare avanti la gravidanza.
Allora, come interpretare la scelta selettiva? Tutela della salute della donna o piuttosto perversa eugenetica proto-nazista? Appare evidente che la discriminante non sta nell’atto in sé, ma nel modo in cui noi decidiamo, caso per caso, di valutarlo. Dal canto suo il divieto assoluto di diagnosi preimpianto imposto dalla legge 40 è una scelta che va chiaramente verso un’opzione morale, quella dell’inviolabilità dell’embrione in quanto persona fin dal concepimento. Ma questa opzione risponde a una precisa visione metafisica. Per carità, una visione rispettabilissima e nobilissima ma che non per questo può essere imposta a chi, laicamente, si sente ancora di sottoscrivere l’art. 1 del nostro codice civile: «La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita». In bioetica c’è bisogno di occhi disposti a scrutare nella complessità del reale, e non di occhi accecati da celesti assolutezze.
© 2010 Associazione Luca Coscioni. Tutti i diritti riservati