Gli occhi sono decisamente azzurri, come anche la camicia dalle maniche appena arrotolate sugli avambracci. Segno che nei laboratori svedesi, i ricercatori italiani soffrono magari la lontananza, ma non il freddo. Qui siamo al Karolinska Institute, tempio della scienza scandinava, un bell’edificio di mattoni rossi nella zona nord di Stoccolma. E in queste stanze del centro di Biosciences che Luca Jovine, 41 anni, dopo una laurea in biologia a Milano, un dottorato a Cambridge, un post doc negli Stati Uniti, è approdato per portare a termine il suo progetto: lo studio di quello che accade quando un ovulo incontra uno spermatozoo. Una fotografia in tre dimensioni dei primissimi istanti della vita, qualunque significato si voglia dare a questa parola.
“Dal punto di vista biologico parliamo del momento in cui il gamete maschile entra in contatto con la parete esterna dell’ovocita, la cosiddetta zona pellucida “, spiega Jovine. Con il suo team di ricerca, che coinvolge anche i francesi dell’Università di Grenoble e i giapponesi della Nagoya Universiry, Jovine ha messo a punto un modello in 3D della molecola, presente sulla membrana che avvolge e protegge l’ovocita, che riconosce lo spermatozoo e lo fa entrare, permettendo la fecondazione. Una ricerca che promette di aiutare le donne che hanno problemi di fertilità: spesso, infatti, ci sono alterazioni della membrana, che è più spessa o più sottile della norma, e questo impedisce all’embrione di impiantarsi nell’utero. Jovine è uno di quegli scienziati che si muovono su un crinale difficile, sempre sotto il tiro dei bioeticisti. Perché in ballo c’è il momento topico della creazione, dell’attimo nel quale i due gameti s’incontrano e inizia il processo della vita. Metterci le mani sopra è un’impresa fantastica, che aiuta milioni di donne a far nascere un bambino. Ma per farlo, gli scienziati devono guardare ai gameti e al prodotto dell’incontro come si guarda a una cellula, con gli strumenti della ricerca. Che, oggi, permette di manipolare ovociti e sperma per aumentare le probabilità di una gravidanza. E poi, di selezionare gli embrioni anche per escludere malattie genetiche terribili. L’obiettivo di questi "creatori della vita" è nobile: aiutare le coppie infertili a portarsi a casa un bimbo sano.
Ma gli ostacoli che la bioetica cattolica mette loro tra le ruote sono molti: basti pensare alla legge 40 della Repubblica italiana. Per questo in Scandinavia hanno deciso di tenere il punto. E mentre il Karolinska Institute ha creduto nel progetto dell’italiano Jovine, gli ha dato i fondi necessari e il via libera per cominciare a lavorare, l’Assemblea dei Nobel di questo centro, che sceglie chi premiare nel campo della Medicina e Fisiologia, ha scelto il padre della fecondazione in provetta: l’inglese Robert Edwards riceverà il Nobel per la medicina direttamente dalle mani del re Carl XVI Gustaf.
Italia: un settore proibito
Colpito dall’entusiasmo di milioni di famiglie riconoscenti, il neo premiato non riesce a capacitarsi che in Italia una normativa (la legge 40, oggi in via di smantellamento sotto i colpi della Corte costituzionale) abbia a lungo impedito di fare ricerca in settori “proibiti”, come nel caso del congelamento degli embrioni. Ma molti dei suoi epigoni non si sono dati per vinti, e hanno puntato al risultato attraverso altre strade. Nei laboratori dei suo centro bolognese Andrea Borini, presidente della Società italiana di conservazione della fertilità, lavora alla crioconservazione degli ovociti. L’idea è quella di consentire alle donne che devono subire l’asportazione delle ovaie a causa di una malattia, o che stanno per cominciare una chemioterapia, di mettere da parte i loro gameti per poi utilizzarli al momento opportuno. Che la ricerca nel nostro Paese non si sia fermata lo dimostrano anche gli studi condotti da Maria Cristina Magli, oggi embriologa al Sismer, il Centro di Bologna dedicato all’infertilità e alla procreazione assistita. Insieme a un altro centro tedesco, Magli ha partecipato al primo studio pilota, coordinato dalla European Society for Human Reproduction and Embriology (Eshre), per lo screening genetico degli ovociti. “Al nostro obiettivo”, spiega Luca Gianaroli, presidente della Società europea, “era quello di avere un test non invasivo in grado di individuare gli ovociti migliori da fecondare. E aumentare così le chance di ottenere una gravidanza”. Oltre il 50 per cento degli ovociti prodotti da una donna nel corso della sua vita riproduttiva, infatti, presenta delle anomalie cromosomiche che sono alla base degli aborti ricorrenti o della cosiddetta infertilità inspiegata. Il risultato è che due embrioni su tre non riescono a svilupparsi in un feto. La nuova tecnica (Cgh, cioè Comparative Genomic Hybridisation) consente di analizzare il materiale cromosomico (il globulo polare) che l’ovulo espelle in due fasi successive, al momento della fecondazione, per fare spazio a quello dello spermatozoo. “Questo ci permette di fare uno screening sulle cellule uovo, senza distruggerle, e prendere quelle migliori, con un margine di errore di appena il 10 per cento, in tempo utile per fecondarle in vitro”, aggiunge Gianaroli. Con la Cgh sono nati già tre bambini: uno in Italia, a settembre, e una coppia di gemelli a Bonn.
Usa: caccia all’embrione
La strada intrapresa da Magli è simile a quella percorsa al Women and Infants Hospital della Brown University, nello Stato del Rhode Island (Usa). Qui Sandra Carson, direttore del dipartimento di Endocrinologia riproduttiva e infertilità, da anni studia lo sviluppo degli ovociti, per individuare quelli che hanno maggiori probabilità di dare origine a un embrione sano, che dunque più verosimilmente si impianterà nell’utero materno. Per annunciare i risultati della sua ricerca, Sandra è volata a Denver con il suo ricercatore Peter Klatsky, al meeting annuale della Società americana di medicina riproduttiva. E qui ha tracciato quella che secondo lei è la strada del futuro: esaminare il globulo polare dell’ovocita, alla ricerca di Rna messaggero.
Dice Carson: “Questo ci permette di risalire ai geni attivi nella cellula, e di ottenere informazioni importanti sulla sua salute. Se questo fosse vero, sarebbe possibile identificare l’embrione più sano e impiantare solo quello, riducendo così gli impianti multipli che sono sempre a rischio di generare parti gemellari o trigemini”. Nel suo studio di Pinehurst Avenue, nei Centro per la Medicina riproduttiva dell’ospedale di Orlando, in Florida, il dottor Gary De Vane cerca invece una strada alternativa per evitare l’iperstimolazione ovarica, per esempio in donne che già soffrono della sindrome dell’ovaio policistico. La sua tecnica – che ha già dato i suoi frutti: una bella bambina nata a dicembre del 2009 dalla paziente “Jane” – si chiama maturazione in vitro. Si tratta di prelevare dalle aspiranti mamme gli ovociti ancora immaturi, per poi farli crescere fuori dall’organismo femminile, evitando quindi alle pazienti il bombardamento ormonale. Nell’arco di due giorni, gli ovociti saranno pronti per incontrare gli spermatozoi ed essere fecondati.
Belgio: dalla parte delle donne
Al Centro di Medicina riproduttiva della Libera Università di Bruxelles lavora invece Paul Devroey. Alla sua porta bussano donne di ogni età, in cerca di una gravidanza che per vie naturali non è mai arrivata. Ci sono giovani di 25 anni con le tube di falloppio chiuse, che dunque non presentano ovulazione. Ma ci sono anche signore mature, di 40 o 45 anni, che per mille motivi hanno aspettato troppo prima di affrontare il loro desiderio di maternità. “Donne”, dice questo elegante ultrasessantenne, “che hanno scarse o nulle possibilità di successo”. Il suo pallino è quello di reintrodurre una parvenza di naturalità in un processo tanto artificiale. “L’obiettivo è arrivare a mimare il ciclo riproduttivo femminile, inserendo ogni mese un embrione (e uno soltanto) nell’utero della paziente, operazione da ripetere ovviamente in caso di fallimento”. Se questo è il futuro, però, per il medico belga, la mission dell’oggi è quella di aiutare le donne "low responders", cioè quelle sulle quali la stimolazione ormonale funziona poco o per niente, a produrre un numero adeguato di ovociti da fecondare. E poi ridurre il numero di pazienti che vanno incontro alla sindrome da iperstimolazione ovarica, una delle complicanze indotte dalla somministrazione ormonale. A dargli una mano in questo senso c’è un nuovo farmaco, la corifollitropina alfa, recentemente approvata dalle autorità regolatorie europee nei protocolli di procreazione assistita. “Ottenuta da cellule ovariche del criceto cinese, la corifollitropina alfa ha un’attività a lunga durata d’azione. Questo significa che le pazienti possono ricevere un’unica somministrazione settimanale, invece che una iniezione al giorno per sette giorni”, spiega Devroey. Un bel passo avanti nella qualità di vita delle donne.
Israele: obiettivo utero
Tra i nipotini di Edwards non può mancare Giuseppe Del Priore, nome italiano ma passaporto americano. Gli studi di questo signore, che oggi lavora al New York Downtown Hospital, hanno come obiettivo quello di restituire alle pazienti che per qualche motivo hanno dovuto subire l’asportazione dell’utero, la possibilità di portare avanti una gravidanza. Qualche anno fa Del Priore ha ottenuto un parere positivo dal comitato etico per avviare il programma di trapianto uterino a scopi riproduttivi, e ora la data del primo intervento si avvicina. Nel frattempo Nava Dekel, che lavora all’Istituto Weizmann di Rehovot, in Israele, ha avuto un’idea. Ha pensato che una piccola biopsia uterina, cioè il prelievo di un frammento della mucosa – intervento che provoca una piccola ferita – fatta poco prima del reimpianto dell’embrione, raddoppia le chance di attecchimento, perché rende l’utero più ricettivo all’impianto. Una coppia canadese, stanca dei tanti tentativi andati a vuoto, ha contattato la dottoressa Dekel e ha chiesto di sperimentare la tecnica. Detto, fatto: nell’ottobre scorso è venuta alla luce Hannah Esther Angel Kaman.
© 2010 Associazione Luca Coscioni. Tutti i diritti riservati