Sulla iperbole "il Paese è spaesato" del presidente della Cei, Angelo Bagnasco, c’è poco da discutere, perché si tratta di un’affermazione difficilmente contestabile se ci si ferma alla crisi di valori che attraversa la società moderna (non solo l’Italia, quindi). D’altra parte non si può che sottoscrivere la denuncia del monsignore contro i comportamenti criminali, come anche l’appello in difesa di chi – giovani coppie, anziani, famiglie – non può affrontare la spesa della casa. Però il discorso di Bagnasco (tenuto nell’ambito della Conferenza episcopale italiana) ha abbracciato altre grandi questioni come l’aborto e l’eutanasia.
Sono argomenti che coinvolgono il "valore vita", ovvero l’importanza che si da alla esistenza propria e degli altri; sono argomenti eticamente sensibili, sui quali ciascuno (cattolico, musulmano, laico…) può e deve comportarsi secondo coscienza (e scienza, eventualmente). Ebbene, mettere all’indice Amnesty International che ritiene l’aborto una soluzione per le donne che hanno subito violenza, non aiuta a unire le coscienze, ma contribuisce a dividerle, costringendo anche tanti cattolici – che collaborano con Amnesty – a scegliere se stare con la Chiesa o con l’organizzazione umanitaria. Non solo: attaccare direttamente l’aborto significa disorientare tutte quelle donne che ricorrono ad una legge dello Stato, che ha permesso la fine della clandestinità, la tutela della salute femminile, un forte calo delle stesse interruzioni di gravidanza. Se va fatta una verifica della legge – come un tagliando periodico – questa deve riguardare l’applicazione delle norme nei confronti delle immigrate, meno protette e spesso più esposte alla necessità di porre termine ad una gravidanza non desiderata.
C’è poi l’eutanasia, sulla quale la Chiesa interviene molto spesso. Soprattutto dopo il caso Welby. È bene chiarire che in Italia solo una minoranza chiede di praticare iniezioni letali o il suicidio assistito, nei casi di malattia grave, dolorosa, senza speranza. Da noi si discute sulla possibilità di "staccare la spina", di porre fine all’accanimento medico, di sospendere le terapie nei casi conclamati di irreversibilita del male. Ebbene, nel documento della Congregazione della Fede reso pubblico giorni fa, si ribadisce che è un "obbligo morale, in linea di principio, somministrare acqua e cibo, anche per via artificiale, ai pazienti in stato vegetativo, anche se si tratta – per i medici curanti – di una condizione permanente".
Lo stato vegetativo è contraddistinto dalla perdita delle funzioni cognitive, e del mantenimento delle funzioni vitali (respirazioni, battito cardiaco, temperatura e pressione sanguigna nella norma). Il paziente apre gli occhi, reagisce al dolore con smorfie, ma non parla, non coordina le sue necessità, è incontinente. Sono in queste condizioni almeno seimila italiani che, diversamente da Welby – che sopravviveva grazie alle macchine – non sono in grado di esprimere le proprie volontà. La domanda da porsi è questa: è giusto continuare a nutrire e idratare artificialmente chi è in stato di incoscienza? Per la Chiesa la risposta è sì, sempre e comunque. Ma chi non è d’accordo con i dettami cattolici come deve comportarsi? E i medici che possono fare?
Una via d’uscita c’è: si chiama Testamento biologico. Una legge. Che offra la possibilità di decidere, anticipatamente, come si vuole essere trattati se ci si trova nella drammatica condizione di non poter intendere e volere; che riconosca al cittadino il diritto all’autodeterminazione, il diritto di rifiutare le cure, di evitare una inutile agonia. Ma per tutto ciò serve appunto una legge. Per ora il Parlamento non sembra curarsene.