C’è un equivoco sulla pillola abortiva Ru486 che continua ostinatamente a circolare, e cioè che si tratti di un metodo meno doloroso, fisicamente e psicologicamente, di interrompere la gravidanza. Lo ha scritto anche lei, nella rubrica del 7 aprile. Non è così. Negli ultimi anni sono stati chiesti ben tre pareri al Consiglio Superiore di Sanità, la massima autorità scientifica italiana in ambito sanitario, e tutti hanno avuto lo stesso esito: nel 2004 il Css afferma che «i rischi connessi alla interruzione. farmacologica della gravidanza si possono considerare equivalenti alla interruzione chirurgica solo se l’aborto avviene in ambito ospedaliero», nel 2005 che la procedura deve avere luogo in ospedale e che «la donna deve essere ivi trattenuta fino ad aborto avvenuto»; con l’ultimo parere si ribadisce la necessità del ricovero ordinario.
Sono cambiati i ministri, è cambiata più volte la composizione del Consiglio, ma la conclusione, dopo avere esaminato l’ampia documentazione scientifica sull’argomento, è sempre la stessa: la pillola abortiva presenta un profilo di maggior rischio rispetto al metodo chirurgico, e solo la permanenza in ospedale offre le garanzie necessarie per la salute della donna. In altri Paesi, si dice, le donne tornano a casa. Ma in altri Paesi c’è spesso meno attenzione verso l’interruzione di gravidanza, e infatti l’Italia è l’unica nazione europea dove da oltre venti anni gli aborti continuano a diminuire, grazie a una legge che prevede garanzie e cautele (in parte ancora inapplicate) e a una diversa cultura diffusa.
Eugenia Roccella Sottosegretario ministero della Salute
Cara Signora, Grazie per la sua lettera. Approfitto dei suo intervento per segnalare che ho ricevuto in questi giorni altre lettere molto interessanti. Avrei voluto pubblicarle, ma sono troppo lunghe e mi limito a menzionare una di esse, particolarmente appassionata, in cui l’autore mi rimprovera di avere attribuito alla Chiesa troppe interferenze e ad alcuni uomini politici la colpa di avere prestato troppa attenzione alle sue richieste. Secondo il mio interlocutore, la Chiesa non ha altre armi fuorché la sua voce, le sue parole, la sua autorità morale in difesa della vita. Occorre quindi permetterle di svolgere la sua missione nella speranza dì convincere il maggior numero possibile di cittadini a condividere i suoi principi. Aggiungo quindi alla mia risposta precedente due brevi considerazioni.
Prendo nota anzitutto delle precisazioni del sottosegretario Roccella, ma non credo che altri Paesi di vecchia democrazia e di grande tradizione civile siano meno sensibili dell’Italia al problema sanitario dell’interruzione di gravidanza. Penso piuttosto che siano altrettanto sensibili alla li bera scelta delle donne. Ho già detto in un’altra occasione che non amo l’aborto; ma amo ancora meno che alle donne venga detto come devono organizzare la loro vita. All’autore della lettera rispondo soltanto che la Chiesa deve avere il diritto di predicare la sua dottrina sempre, ovunque e anche, tanto per fare un esempio, nelle scuole gestite dalle sue congregazioni. Ma non dovrebbe intervenire nella politica italiana con documenti pre-elettorali o, peggio, come accadde all’epoca dei referendum sulla procreazione assistita, chiedendo agli elettori di disertare le urne. Quell’intervento mi è parso uno dei peggiori episodi nella storia dei rapporti della Chiesa con lo Stato italiano.
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