Cina e Tibet: riprendete il dialogo

Tra i temi urgenti sul tavolo del neo Parlamento europeo non dovrà essere trascurata la questione Cina-Tibet. Dal 2004 è stata più volte affrontata in quella sede. Con azioni parlamentari e non, il Partito radicale ha tentato di far trovare all’Unione europea una posizione comune per la ripresa del dialogo tra il Dalai Lama e le autorità cinesi e si è adoperato per far emergere la verità sul fallimento dei negoziati.Difficile conciliare le due posizioni: da una parte,il regime cinese, ritiene il Dalai Lama un violento a capo di violenti pronti a tutto per l’indipendenza di uno Stato nazionale tibetano contro l’unità territoriale cinese. Dall’altra, il Dalai Lama e il governo tibetano in esilio sostengono che la nonviolenza è il metodo di lotta per ottenere un’autonomia che salvaguardi la loro cultura: tradizioni, lingua, religione.

Il Dalai Lama ha dalla sua parte non solo l’evidenza dei fatti, ma anche la reiterata offerta di disponibilità a collaborare con qualsiasi indagine internazionale e inchiesta indipendente volta all’accertamento della verità.Lavorare a un modello genuinamente federalista per il Tibet è questione della massima urgenza e rilevanza per la politica internazionale: Tibet libero significa infatti Cina finalmente libera da quell’autoritarismo che l’ha trascinata nel baratro della repressione del suo stesso popolo. Nella storia di violenza e negazione dei diritti del popolo tibetano, che va avanti da più di sessant’anni, sono in gioco anche la libertà e la democrazia per oltre un miliardo di cinesi. Inoltre, la concessione di una vera autonomia per i tibetani aprirebbe la strada alla soluzione di altre questioni di ‘minoranze’, come quella degli Uiguri o dei Mongoli. La Cina deve al più presto conciliare le profonde contraddizioni interne: l’impetuoso sviluppo economico affonda le sue radici nella disparità sociale ed economica, nella violazione di tutti diritti umani, civili e sindacali e nell’indifferenza per ogni regola di tutela ambientale. Ancora troppi sono gli scheletri nell’armadio. Primo su tutti pesa il massacro di Tian’anmen di cui il 4 giugno ricorre il ventennale. Nel 1989 il governo cinese apre il fuoco su studenti, operai, contadini inermi che in una manifestazione chiedono al partito comunista una svolta democratica e meno corruzione. I morti non si contano, ma su questo bagno di sangue a tutt’oggi non ci sono state risposte ufficiali, nemmeno sul numero delle vittime. Trent’anni prima la Cina con lo stesso uso spregiudicato e corrotto del potere e una violenza sanguinaria contro persone inermi invade il Tibet. E quando nel 2008, reprime brutalmente, causando 140 morti accertati, manifestazioni e marce non violente promosse per il quarantanovesimo anniversario dall’occupazione, arriva la condanna da parte del Parlamento europeo. A proporre di adottare una risoluzione è proprio il Partito radicale che ha partecipato con una delegazione alla marcia ai confini tra India e Tibet e ha sostenuto con lo sciopero della fame i monaci arrestati. La risoluzione, approvata a larga maggioranza, chiede un’inchiesta internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite e la ripresa dei negoziati tra il Dalai Lama e le autorità cinesi e rende omaggio al capo spirituale tibetano per aver invitato il suo popolo a manifestare in modo nonviolento.Lo scorso 12 marzo, il Parlamento europeo adotta una nuova risoluzione, promossa dai parlamentari della Lista Bonino, Marco Pannella e Marco Cappato con il gruppo Alde (Alleanza dei liberali e dei democratici per l’Europa), che condanna ogni atto di violenza, e chiede al governo cinese di rilasciare tutti i manifestanti pacifici arrestati, di rispondere di coloro che sono stati uccisi o risultano scomparsi e di garantire l’accesso alla regione a giornalisti, esperti ONU di diritti umani e ONG. La Commissione esteri del Parlamento europeo si propone come sede per far discutere insieme alle due parti sulla base del Memorandum che gli inviati tibetani del Dalai Lama hanno presentato al regime cinese sulla effettiva autonomia del popolo tibetano. La Cina rifiuta e il Partito radicale promuove un appello che la invita a riprendere i negoziati.Mentre tutto è fermo, il Dalai Lama continua a ripetere: ‘’Il Tibet fa parte della Cina ed io non chiedo l’indipendenza’’. Inascoltato finora. E se continuerà ad esserlo, la stessa possibilità di liberazione non violenta e antinazionalista di un popolo rischierà di non essere considerata un’alternativa realistica non solo dai tibetani, ma da altri popoli oppressi della terra.