Facciamo la pace con Pannella, non con Putin

Un pomeriggio d’estate di 22 anni fa Marco Pannella, il cui sesto anniversario della morte cade il 19 maggio, si affacciò nell’ufficio dell’eurodeputato Olivier Dupuis, all’epoca segretario del Partito Radicale, intromettendosi nella telefonata intercontinentale che stavamo avendo per urlarci “dovreste ringraziare Putin che almeno dà un senso al Partito!”.

Intorno alla metà di maggio del 2000 la Federazione russa aveva chiesto alle Nazioni unite che il Partito Radicale, che dal 1995 godeva di uno stato consultivo con il Consiglio economico e sociale dell’Onu, venisse espulso per connivenze con gruppi terroristi ceceni. La richiesta faceva seguito a due interventi di Akyad Idigov che in quei giorni era presidente della Commissione esteri del Parlamento ceceno – probabilmente l’ultima assemblea eletta (1997) senza coercizioni e brogli nelle repubbliche russe del Caucaso settentrionale.

Nel torpore delle riunioni della Commissione diritti umani di Ginevra, Idigov aveva puntualmente denunciato l’amministrazione di Putin facendo riferimento a documenti con tanto di numero di protocollo: Mosca aveva pianificato a tavolino la violenta controffensiva dell’esercito in Cecenia. Idigov chiedeva che si prendesse in considerazioni la richiesta di mediazione avanzata dall’amministrazione di Aslan Maschadov, il capo del governo separatista ceceno, per una soluzione politica al conflitto, un piano che prevedeva il necessario coinvolgimento attivo e le garanzie del Consiglio d’Europa e dell’Onu. 

La sua presenza a Ginevra grazie al Partito Radicale (sostenuta economicamente anche da Vanessa Redgrave) consentì a Idigov di incontrare privatamente il “traditore” Akhmad Kadyrov (padre di Ramzan) che si era schierato con Mosca, e di gettare le basi per incontri informali che si sarebbero tenuti segretamente poco dopo in Svizzera grazie all’intercessione del Liechtenstein. 

La richiesta di espulsione del Partito Radicale dall’Onu pareva un atto dovuto a cui non si poteva che accondiscendere data la sproporzione delle forze in campo. Invece seguirono sei mesi di attività politica, pubblica, parlamentare e, naturalmente, “diplomatica” (ancorché portata avanti da un attore non statale) per smascherare le accuse infamanti e diffamanti della Federazione Russia che, nei momenti più caldi, portavano la firma di Sergei Lavrov, all’epoca Ambasciatore al Palazzo di Vetro.

I dettagli di quell’estate sono nel libro “Operazione Idigov: come il Partito Radicale ha sconfitto la Russia di Putin all’Onu” (Reality Book, 2014) ma ne voglio comunque ricordare un paio. Mi pare infatti opportuno non dimenticare che in giorni in cui stiamo assistendo all’ennesimo conflitto scatenato senza alcun motivo dalla Russia c’è chi scopre di cosa sia capace Putin e di cosa (non) sia capace chi non ha mai voluto vedere quel che stesse accadendo nella Federazione contro le volontà e libertà del popolo russo.

In pochi giorni fu lanciato un appello dal titolo “Siamo tutti Radicali” che raccolse centinaia di firme italiane, e non, di iscritto, simpatizzanti, intellettuali, politici, membri di governo e parlamentari in carica e in pensione; furono presentate risoluzioni parlamentari a Strasburgo in sostegno all’azione diplomatica della presidenza francese dell’Ue e a Roma per dar mandato al governo di Giuliano Amato (contro cui votarono la Lega Nord e il Partito dei Comunisti Italiani) di fare tutto quanto possibile in difesa del Partito Radicale all’Onu; furono recuperati contatti e frequentazioni politiche transnazionali di una vita ma, soprattutto, fu deciso di NON trattare né dialogare con la Russia.

Anche se avanzate per procura, ed educatamente ascoltate come diplomazia insegna, mai per un istante fu dato seguito alle sirene mediatrici interne al Palazzo di Vetro di India, Pakistan, Algeria e Sudan. Essendo storicamente amiche dell’Italia volevano far vedere che non erano mal intenzionate nei confronti di una organizzazione non-governativa che per quanto “transnazionale” era principalmente fatta da italiani.

Nel 2000 la situazione sul campo in Cecenia era molto frammentata, se si parlava di quelle terre si denunciavano le atrocità di Šamil Basaev – ormai il coordinatore delle infiltrazioni wahabite e, molto probabilmente, collettore di buona parte dei finanziamenti proveniente dalla penisola arabica. Anche per questi motivi, l’intervento pronunciato a nome del Partito Radicale a Ginevra chiedeva un’attenzione diplomatica su una proposta di risoluzione negoziale di un conflitto tramite il coinvolgimento di entità super partes, non invitava a inviare armi ai resistenti ceceni.

Quella guerriglia senza quartiere sui monti del Caucaso, sempre meno sostenibile anche dal punto di vista della reale volontà di coinvolgimento di partner internazionali attorno all’obiettivo finale, aveva minato agli occhi dell’opinione pubblica la credibilità della resistenza partigiana incarnata da Maschadov, Ilyas Akhmadov, Akhmed Zakayev e Umar Khanbiev (che poi sarebbe diventato dirigente del PR fino al suo rientro in patria). Un’opinione pubblica che, tranne quella che ascoltava le corrispondenze di guerra del giornalista di Radio Radicale Antonio Russo, o non ne sapeva niente o era sottoposta a solito misto di mezze verità e massicce dosi di misficatrice propaganda anti-terroristica.

Mancava poco più di un anno agli attacchi dell’11 di settembre, ma la lotta al terrorismo era già uno degli argomenti usato da “leader forti”. Slobodan Milošević l’avevo l’argomento della “sicurezza nazionale” come argomento contro i kosovari nell’estate del 1998. Le azioni contro il “radicalismo” son spesso un pretesto per giustificare l’uso della forza contro il dissenso politico interno o le minoranze “etniche” ribelli. Putin lo sapeva benissimo. Quell’anonimo funzionario dei servizi segreti era arrivato al potere dal “nulla” conquistando fiducia e popolarità grazie al pugno duro di tolleranza (e giustizia) zero proprio contro il terrore a seguito di una serie di attentati che furono automaticamente attribuiti ai ceceni senza alcuna indagine e/o prova. 

Ceceno era, e per molti anni restò, sinonimo di terrorista e chi frequentava i ceceni, per la proprietà transitiva tipica dei regimi autoritari e della superficialità dei media, era altrettanto sospetto e pericoloso. Se poi quel qualcuno voleva anche legalizzare le droghe, come storicamente propone il Partito Radicale, oltre a fiancheggiare gruppi armati dediti alla secessione da uno stato sovrano era “sicuramente” anche al soldo delle marco-mafie internazionali. La minaccia all’integrità territoriale di uno Stato Membro delle Nazioni unite e le collusioni con gruppi criminali sono due dei motivi per cui uno stato membro può chiedere la revoca dell’affiliazione all’Onu di un’organizzazione non-governativa.

Quei sei mesi di ferma opposizione alle prepotenze e macchinazioni di Mosca costarono la vita di Antonio Russo, che fu trovato morto il 16 ottobre del 2000 vicino Tiblisi, due giorni prima che un voto al Palazzo di Vetro respingesse al mittente la richiesta di espulsione del Parrito Radixale. Era la prima volta nella storia delle Nazioni unite che ciò accadeva, ma non l’unica – quattro anni dopo infatti, sempre il Partito Radicale respinse un nuovo attacco portato avanti dal Vietnam. In entrambe le occasioni coordinai quel lavoro di resistenza diplomatica. 

Poco dopo la morte di Pannella la posizione di rappresentante del Partito Radicale all’Onu fu ufficialmente istituzionalizzata e affidata a due persone. Io l’avevo ricoperta per quasi 20 anni senza alcuna investitura che non fosse la fiducia del gruppo dirigente.

Nell’autunno del 2016, quando un gruppo di tibetani, l’ultimo con cui Pannella aveva denunciato le violazioni dei diritti umani di Pechino a Ginevra l’anno prima, chiese la possibilità di assistere a una riunione del Consiglio dei diritti umani dell’Onu, gli fu negato “perché”, mi disse delusa una delle ricercatrici che collaborava coi tibetani, “le procedure erano cambiate”.

Le procedure sono talmente cambiate che in questi sei anni il Partito Radicale, che ha stravolto il suo statuto libertario prevedendo il rinnovo delle cariche ogni cinque anni, non ha più fatto niente di significativo alle Nazioni unite di New York, Ginevra e Vienna. Certo, l’agibilità della “società civile” è molto limitata alle Nazioni unite, ma anche il mero ruolo di Ong di servizio, che consentì a Idigov di parlare nel 2000 o al leader dei Montagnard vietnamiti Kok Ksor di confrontarsi con Hanoi nel 2002, è stato auto-cancellato. 

La Pace è una “condizione sociale, relazionale, politica (per estensione anche personale ovvero intraindividuale, o eventualmente legata ad altri contesti), caratterizzata dalla presenza di condivisa armonia e contemporanea assenza di tensioni e conflitti”. 

Quella con Pannella non è la pace da fare con un nemico, malgrado l’attitudine al confronto-scontro pubblico Pannella non si era mai fatto nemici, se non forse quando viveva a Parigi all’inizio degli anni ‘60 e solo una soffiata di Jean Marie Le Pen (sì, proprio quello) gli salvò la vita. La pace con Pannella, quello che fu, serve (anche) a non subire privatamente l’immagine museale che si sta scientemente costruendo per sanificare la sua infettiva e affettuosa militanza per lo Stato di Diritto precondizione necessaria al pieno godimento del diritto alla vita. 

Una pace interiore e politica che aiuti a recuperare la vivacità e attualità del pensiero di Pannella, delle sue azioni, ponderate o estemporanee, delle sue intuizioni e visioni che riuscivano a dare senso politico a un rigagnolo della Marsica in relazione con un fiume degli altipiani centrali dell’Indocina – visioni e previsioni che contrastano radicalmente con le intenzioni di chi ne vuole archiviare la storia e la portata evocativa.

Una pace non dei sensi, ma una predisposizione d’animo a continuare a fare quello che si è sempre fatto senza la preoccupazione di venire associato, o avvicinato, o affiancato, o annesso (come piace dire oggi) alla “iniziativa radicale” mediaticamente e genericamente (fra)intesa.

La pace va fatta con chi merita farla. Chi è, o è stato, radicale o pannelliano, non può non fare pace con Pannella dopo questi anni di “guerre” interne che hanno portato l’espulsione di buona parte delle persone e temi che hanno accompagnato la presenza terrena di Pannella. Le inadeguatezze che nel giro di poche settimane sono passate dal capezzale alla cabina di comando – senza che nessuno si sia interrogato se quel modo di agire fosse il più utile e opportuno per gestire la transizione verso il futuro di un movimento caratterizzato da una leadership come quella di Pannella – stanno progressivamente cancellando una parte molto importante di quanto fatto dal Partito Radicale riciclando lotte del passato e costruendo simulacri di soggetti politici. E forse pure elettorali…

Nel 2000 fu Pannella a cogliere l’importanza di far parlare Idigov all’Onu e l’occasione delle accuse russe per prendere da subito Putin, e i putiniani, di petto per porli di fronte alle loro responsabilità di connivenze con un leader autoritario che aveva (e come sappiamo ha) amici a noi molto vicini. Il fine di poter essere presenti e attivi all’Onu non poteva giustificare i mezzi per restarci, occorreva non mollare e, se possibile, contrattaccare.  Non fu una scommessa ma lotta politica tipicamente pannelliana. 

Quelle scelte politiche oggi sono rintracciabili solo grazie a Radio Radicale, ma occorre sapere cosa si cerca, occorre cioè conoscere un minimo di storia del Partito Radicale; il sito del Partito è chiuso perché, immagino, sarà la Fondazione Marco Pannella a curarne gli archivi. Ma se il buongiorno si vede dal mattino, la fondazione intitolata a uno degli ispiratori del Partito Radicale moderno pare più attenta a onorare le parole della Prefettura di Roma piuttosto che l’azione politica di Rita Bernardini – la radicale più vicina all’onorabilità pannelliana in quanto a disobbedienze civili, presenza nelle carceri e scioperi della fame. 

Per questi motivi non va però fatta la pace con Putin. Almeno non oggi. Uno degli slogan pannelliani “sempreverdi”, che una trentina di anni fa portò alla creazione dell’omonima organizzazione, recita “non c’è pace senza giustizia”. Troppo spesso abbiamo visto despoti spietati convocati al tavolo della pace senza condizioni e, se anche l’obiettivo fosse quello della riconciliazione tra i popoli offesi dal conflitto, la storia ci insegna che senza la ricerca della “verità” la riconciliazione non può esserci – e comunque queste forzature della giustizia internazionale possono funzionare relativamente a conflitti interni e non in caso di guerre d’aggressione.

Oggi va preteso un cessate il fuoco ma negoziare con Putin, che in queste ore pare essere in uno stallo militare, necessita di precondizioni molto chiare in termini di rispetto dello Stato di Diritto internazionale. Sono tre mesi che abbiamo visto violare quasi tutti gli articoli dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, un’altro obiettivo pannelliano storico, mi pare difficile che si possa continuare a far finta che le regole possano essere piegate alle (presunte) necessità, o convenienze, del momento. Questo vale per le cancellerie di mezzo proprio come per via di Torre Argentina.