Ormai è diventato l’argomento centrale della politica italiana, il fulcro di alleanze che si disfano e si ricompattano in nome dell’embrione e della sua sacralità, della teologia che prende la mano al diritto e della laicità dello Stato ridotta a semplice Cenerentola. Il pacchetto dei referendum sulla procreazione assistita, dopo aver compromesso l’alleanza già data per conclusa fra il centro-sinistra e i radicali, ha provocato la nascita di un fronte cattolico aggressivo e baldanzoso come non si era mai visto neanche ai tempi del referendum sull’aborto. Ma non è certo delle persone in carne e ossa, della loro salute e delle loro sofferenze che si preoccupano gli anti referendari decisi a far fallire la consultazione tenendo gli elettori lontani dalle urne invece che andando a una democratica conta dei favorevoli e dei contrari. Più si avvicina l’ora X del voto, non ancora fissato ma che non potrà andar oltre il 12 giugno, più la realtà della procreazione assistita sembra sfumare e allontanarsi.
Eppure è ormai da un anno, esattamente dal 10 marzo 2004, che la legge 40 è entrata in vigore. E come ad ogni compleanno che si rispetti cominciano a essere disponibili i dati sul suo funzionamento, vere fotografie di quel che è successo alle italiane e agli italiani che hanno cercato di avere un figlio all’ombra di queste norme. Sono dati non ancora definitivi che però riflettono in modo abbastanza omogeneo gli stessi disagi e gli stessi guasti, dimostrando prima di tutto che la legge sulla procreazione assistita ha fatto più danni, in campo medico, di qualunque altra legge mai approvata in Italia. Da Bologna a Palermo, da Firenze a Torino a Cagliari, le cifre dei principali centri dimostrano che le gravidanze, con le restrizioni imposte ai medici, sono diminuite in una percentuale che oscilla fra il 10 e il 15 per cento. Vuol dire che se in una buona clinica come per esempio il Centro di biologia della riproduzione di Palermo di Ettore Cittadini a ogni tentativo (a ogni ciclo nel linguaggio medico) restavano incinte il 33 per cento delle donne, grazie alla legge 40 adesso solo il 18 per cento arriva alla gravidanza. Si segnala quasi ovunque un aumento dei gemelli (dal 7 al 12 per cento a Palermo, dal 14,2 al 18,6 secondo un dato medio), e anche di gravidanze trigemine, con tutti i rischi connessi.
Ancora, nei centri privati è calato parecchio anche il numero delle pazienti. Da un’indagine condotta in sei centri da ‘Il Sole 24 ore’ risulta che i 2.418 cicli di stimolazione del 2003 si sono ridotti a 1.746 nei primi dieci mesi di applicazione della legge. È la conferma di quel che già si sapeva in modo empirico: sono decine di migliaia le donne che dai centri italiani emigrano all’estero, con un turismo forzato di dimensioni sconosciute negli altri campi della medicina.
“I guasti al nostro lavoro provocati da questa legge sono quasi irreparabili. Le sue molte proibizioni hanno conseguenze di cui i profani non si rendono conto”, denuncia Ettore Cittadini, il carismatico professore palermitano che è stato uno dei pionieri italiani della fecondazione assistita. La voce di Cittadini è tornata a farsi sentire dopo che, qualche mese fa, aveva lasciato il posto di assessore alla Sanità della Regione Sicilia, rompendo burrascosamente con Forza Italia. Fra le persone più penalizzate, sostiene Cittadini, ci sono gli uomini infertili, che ormai, con una tecnica chiamata Icsi, riuscivano molto spesso a diventare padri purché avessero almeno una quantità minima di spermatozoi. “Per estrarli serve una piccola operazione chirurgica. Se l’impianto fallisce, visto che è proibito congelare gli embrioni bisognerebbe fare un’altra operazione, e magari un’altra ancora. Questo non è possibile”, dice. In compenso, chi non ce la fa più con la Icsi non ha neanche l’alternativa della fecondazione eterologa, vietata dalla legge 40. Anche qui ci sono risvolti poco conosciuti.
Claudia Livi dirige il centro Demetra di Firenze, a cui era collegata, fino al marzo scorso, un’importante banca del seme e degli ovociti. “Mentre per quel che riguarda le cellule uovo, molto difficili da procurare, parecchie donne continuano a venire da noi per consigliarsi, le persone alla ricerca di un donatore sono tutte scomparse”. Questo fa pensare che si rivolgano a Internet, dove le offerte di seme abbondano, o magari a qualche banca clandestina. Ma così rinunciano a ogni garanzia sulla salute del donatore, entrando in un mercato sommerso che si configura come il vero Far West del 2000. Nello stesso Far West finiscono le donne che, non avendo gli 8, 10 mila euro che servono per una ovodonazione in paesi sicuri come la Spagna o il Belgio, emigrano a Est, in Bulgaria o magari in Ucraina, dove si spende di meno ma si rischia molto di più.
In certi casi la legge che pretende di difendere la vita a qualunque prezzo sta ottenendo l’effetto contrario. Lo dimostra, cifre alla mano, il professor Giovanni Monni, primario del reparto Diagnosi preimpianto all’ospedale Microcitemico di Cagliari. Nella regione in cui è più diffusa una malattia ereditaria come l’anemia mediterranea, quasi 7 mila coppie nel corso degli anni erano venute in questo reparto per verificare con una villocentesi lo stato di salute del feto. Sui 1.700 casi in cui era risultato ammalato, solo 21 donne avevano scelto di portare avanti la gravidanza. Tutte le altre avevano abortito. Ma da qualche anno c’era un’altra possibilità, la diagnosi preimpianto degli embrioni che faceva nascere bambini sani, ma che è stata vietata. “Così, grazie alla legge 40, siamo tornati alla situazione di prima, aborti compresi”, dice con amarezza Giovanni Monni.
Il caso più clamoroso è stato quello di una donna malata di talassemia, a cui l’entrata in vigore della legge aveva bloccato all’ultimo momento la diagnosi preimpianto. Quando aveva saputo che uno dei due gemelli poi concepiti per via naturale era ammalato, la donna aveva chiesto al Tribunale di Cagliari di poter fare l’embrioriduzione, cioè di eliminare uno dei feti. E il Tribunale le aveva dato ragione. Diversa la storia di una ragazza che chiamaremo Roberta, la prima ad aver affrontato anni fa un trapianto di midollo osseo per guarire dall’anemia mediterranea. Roberta non può permettersi di fare la turista della provetta, e dopo il trapianto non può rischiare un aborto. Aspetta con il cuore sospeso l’esito dei referendum, sperando che gli elettori non si facciano convincere dall’equazione secondo cui la diagnosi preimpianto sarebbe invece una specie di pratica eugenetica, voluta da chi pretenderebbe di costruirsi in provetta un figlio alto e biondo.
Scavando nei dati di questo primo anno si trovano altre perle. Quasi tutti hanno denunciato che l’obbligo di impiantare tre embrioni, qualunque sia l’età della donna, penalizza fortemente le meno giovani, diminuendo di più di un terzo le probabilità dopo i 38 anni e riducendole a zero dopo i 44 anni. Adesso Luca Gianaroli, il direttore del Sismer di Bologna, uno dei ginecologi più impegnati a favore dei referendum, è riuscito a dimostrarne il meccanismo da un punto di vista medico.
Spiega Gianaroli che con l’aumentare dell’età aumentano nelle donne le cellule uovo con qualche alterazione. Questi ovociti possono anche produrre un embrione, ma si tratterà di un embrione debole, imperfetto, che avrà un basso indice di impianto e quasi sempre verrà espulso dall’utero per selezione naturale. Così il magico numero di tre si rivela una specie di imbroglio ai danni delle meno giovani, quelle che hanno più bisogno della fecondazione assistita.
“Battersi contro questa legge sta diventando sempre più difficile”, dice Gianaroli, che come altri medici in prima linea è spesso oggetto di attacchi e di insulti. Proprio in questi giorni ha ricevuto la lettera da un membro dell’Istituto di bioetica dell’Università Cattolica di Roma, Dino Moltisanti, che lo accusa di “colpevole ignoranza” appunto per aver denunciato il limite dei tre embrioni. E pretende addirittura che “rettifichi il suo modo di operare nel laboratorio di fecondazione, nell’interesse delle donne e dei loro figli”. Claudia Livi, invece, in un dibattito a Firenze è stata accusata da un ragazzo del Movimento per la vita di “pensare solo ai soldi, come tutti quelli della provetta”. Ha risposto che è proprio la legge 40, con le sue proibizioni, a costringere gli operatori a moltiplicare gli interventi, a danno della salute e del portafoglio delle pazienti. E pensare che lo scontro è solo agli inizi.
Provetta prigioniera
Dodici mesi di applicazione della discussa normativa. E, in attesa del referendum, arrivano i primi dati. Un fallimento totale