Oltre i confini del laboratorio

Ogni nuova scoperta scientifica trova senso nella sua condivisione e accessibilità. L’immagine dello scienziato incurante del mondo esterno, seppure diffusa, dice ben poco del vero ruolo dello studioso. Oltre il laboratorio esistono infatti reti di comunicazione e di fiducia, nella scienza e con la società. Sono reti spesso invisibili, difficili da raccontare tanto sono intrecciate e tortuose, ma sempre logiche. Reti che possono portare in luoghi della terra mai visitati prima, dove studiosi che non conosciamo ancora sono pronti ad accoglierci solo perché le loro scoperte (o le nostre), diventate pubbliche, hanno fatto nascere un’idea, teso un filo, creato una corrispondenza e alimentato un pensiero su un nuovo possibile sviluppo di ricerca da mettere a fuoco insieme e proiettare nel futuro.

Non c’é nessuna garanzia che la strada “giusta” passi da lì, ma intraprendere quel viaggio è l’unico modo per saperlo. Come fare a raccontare lo stupore di queste reti, che si intrecciano, si disfano e si riparano, ogni volta con l’obiettivo di un nuovo avanzamento della conoscenza? Ci proverò con una storia. Negli anni Ottanta un gruppo di studiosi seguirono l’invito pieno di traguardi incerti di Nancy Wexler, genetista e professore di neuropsicologia alla Columbia University, che con l’obiettivo di identificare il gene di una difficile malattia neurologica ereditaria, la Còrea di Huntington, coinvolse e reclutò in una impresa mai tentata prima menti brillanti da tutto il mondo. Lo fece con un affettuoso quanto imperioso «Let’s go to Venezuela!». Nancy voleva portare i ricercatori in quella regione del Sud America per uno scopo ben preciso. È nei villaggi intorno al lago Maracaibo che l’Huntington — che conta malati in tutto il mondo, e a migliaia anche in Italia – raggiunge la sua massima diffusione. Molte delle famiglie di quei villaggi vi convivono, da sempre, con le sofferenze triplicate dalla povertà e dall’avere più malati nella stessa famiglia. Tutti “figli” di Maria Concepción Soto, vissuta alla fine del 1800 nel villaggio di Lagunetas e considerata una capostipite della malattia. Lei, si è capito, ha trasmesso il gene a molti dei suoi 18.000 discendenti. Chi ha quel gene svilupperà la malattia, i movimenti scoordinati (che in Italia chiamiamo “ballo di San Vito”) e i disturbi psichiatrici, fino a subire l’isolamento e, nelle realtà più povere, lo stigma di essere additato come un “indemoniato”. Non è un caso che con una legge del 1933, il regime nazista impose a queste (e altre) persone con malattie genetiche la sterilizzazione obbligatoria e più avanti le camere a gas. Ebbene, nel 1975, quel primo viaggio dei ricercatori in Venezuela contribuì a tessere una gigantesca rete che lega ancora oggi in modo indissolubile gli studi sulle malattie neurodegenerative a quella zona del mondo, povera, politicamente instabile e defilata rispetto ai grandi accadimenti del pianeta.

È stato infatti grazie al sangue di quelle persone e a venti anni di geniale ricerca, che si è scoperto il gene della malattia e le troppe “lettere”, CAG (citosina, adenina e guanina) ripetute, che contiene. Intorno a quel gene e a quelle lettere c’è anche un’altra rete, che lega i malati di Huntington di ogni epoca e provenienza all’evoluzione della specie umana. Il gene la cui mutazione causala malattia ha quasi un miliardo di anni. All’inizio quelle lettere non c’erano, poi sono comparse e sono sopravvissute nel DNA di tante specie, arrivando fino a noi e aumentando di numero di pari passo con l’aumentare della complessità del cervello. Pensiamo che non sia frutto del caso. Li chiamiamo “malati” ma in realtà potrebbero essere involontari protagonisti dell’evoluzione della nostra specie. Ci stiamo lavorando perché per curare bisogna capire. E perché la persona malata vuole sapere il motivo che ha portato quel gene con quelle troppe lettere fino a lui. La scoperta del gene ha permesso il riconoscimento della malattia e l’identificazione di farmaci sintomatici. Queste conquiste hanno raggiunto la parte più fortunata del mondo, l’Europa e il nord America, lasciando per lo più a guardare le popolazioni il cui sangue ha reso possibile tutto ciò. Loro vivono ancora nel nulla, in agglomerati polverosi di capanne e baracche, al confine da tutto. Trattati da “indemoniati”. La comunità di studiosi della malattia sa che il mondo ha un grosso debito con loro. E a maggio di quest’anno gli scienziati e le associazioni legate alla malattia hanno avviato un percorso per sanarlo. Grazie ai fili tessuti negli anni con i malati e le poche persone intorno a loro nelle zone più disagiate del Venezuela, della Colombia, dell’Argentina e del Brasile oggi esiste una rete internazionale che, al grido di “Mai più nascosta”, ha reso possibile l’incontro di questi malati tra di loro e con le associazioni e i medici di tutto il mondo. “Mai più nascosta” è stato anche l’impegno pronunciato da Papa Francesco, lo scorso 18 maggio, il primo Pontefice a dedicare un’udienza speciale ai malati di Huntington e a parlare della loro solitudine ed emarginazione. Migliaia i presenti. Centinaia i malati giunti a Roma da tutto il mondo. A distanza di mesi è ancora difficile dimenticare Brenda, 15 anni, da Buenos Aires, mentre nel suo vestito bianco si avvicina a Papa Francesco salendo le scale con un passo che sembrava più sicuro di quello che la malattia da tempo le permette, o Yosbely, 35 anni, da Barranquitas in Venezuela, capace di trasformare la triste Còrea (dal greco “danza”) della malattia, che opprime da sempre la sua famiglia, nello sforzo di eseguire un ballo diverso, musicale, o il sorriso gentile di Dilia, 78 anni, che da El Dificil in Colombia ha portato frasi di buon augurio a tutti, nonostante la sofferenza che ha accumulato negli anni accudendo il marito e nove dei suoi ii figli colpiti dalla malattia. Con un filo di voce ha spiegato cosa significa per una madre disseppellire tre figli, per ricomporli insieme, perché non si hanno soldi a sufficienza per pagare tre tombe. La scienza non ha ancora dato loro una risposta, una cura, ma unendosi alle associazioni e con il contributo delle istituzioni lavora anche fuori dal laboratorio per restituire loro e a tutti i malati la dignità che con la malattia sembrava perduta. Anche io voglio continuare a contribuire ad accrescere questa rete. Una delle tante che dimostrano in quanti modi la scienza può rendersi utile se non resta isolata. Bisogna lasciarsi conoscere, raccontare conquiste e fallimenti e condividere le conoscenze. Conoscenze che non solo la società ma anche e prima di tutto la politica può far proprie – un esempio lo ha dato lo scorso maggio il Senato della Repubblica accogliendo i malati Huntington -, ascoltando ciò che la scienza, la medicina e le associazioni dei familiari possono fare, per arricchire queste reti e non correre il rischio di perderle o spezzarle.