Cos’ è cambiato da Welby a oggi

di Luigi Manconi e Andrea Boraschi

E’ passato quasi un anno dalla morte di Piergiorgio Welby. In questi giorni una serie di articoli e iniziative ne ricordano la storia e la battaglia politica, il suo coraggio e la sua integrità morale. C`è da chiedersi: cosa è cambiato, in Italia, dopo la morte di quell`uomo? E un interrogativo lontano da ogni retorica, una domanda che risponde al senso profondo della vertenza aperta da Welby sulla libertà terapeutica, sul rapporto che la persona – nella sua declinazione giuridica di «cittadino» – intrattiene con la propria identità fisica e la propria corporeità. Ebbene, qualcosa è cambiato. E quel qualcosa è moltissimo: perché sono assai importanti gli orientamenti che ci segnala la piena assoluzione di Mario Riccio, l`anestesista che assistette Welby negli ultimi giomi della sua malattia, dall`accusa di «omicidio di consenziente» ; ed è altresì importante l`ultima sentenza della Cassazione sul caso di Eluana Englaro, che Vincenzo Carbone, primo presidente della suprema Corte, ha spiegato così: «La Corte di Cassazione ha escluso che l`idratazione e l`alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscano, in sé, oggettivamente, una forma di accanimento terapeutico, pur essendo indubbiamente un trattamento sanitario; ha deciso che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzarne l`interruzione soltanto, dovendo altrimenti prevalere il diritto alla vita, in presenza di due circostanze concorrenti: 1) la condizione di stato vegetativo del paziente sia apprezzata clinicamente come irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità, secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacità di percezione; 2) sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento». Sono, quelli citati, elementi che evidenziano non solo il rilievo che le questioni «di vita e di morte» hanno assunto nel dibattito pubblico: essi testimoniano della nuova sensibilità dimostrata dalla giurisprudenza nel riconoscere i diritti della persona malata, incluso quello a una morte compassionevole e non dolorosa e quello a pone fine a un’esistenza dei suoi tratti più umani e intensi. La libertà terapeutica è uno di quei temi correntemente riconosciuti come «eticamente sensibili». Essa implica uno sforzo di individuazione della linea di demarcazione che salvaguardi la libertà dell`individuo di disporre della propria vita – quindi anche della propria salute e del proprio corpo – dai condizionamenti che ad essa possono venire da vuoti normativi, dal progresso della scienza medica, dalla tecnicalizzazione e dalla burocratizzazione del rapporto tra terapeuta e paziente.

In termini più ampi, e per dirla tutta, le implicazioni etiche ed esistenziali cui rimandano questioni come quella del Testamento biologico, ad esempio, hanno a che fare con il rapporto dell`uomo con la modernità, la tecnologia, la scienza; e con l`elaborazione di miti (dal vaso di Pandora in poi) e di figure della cultura e della letteratura classica e popolare (dal Faust al Golem). L`intensità evocativa di quelle rappresentazioni, in riferimento ai casi prima richiamati (Englaro, Welby; ma anche a quelli di Terry Schiavo e di Giovanni Nuvoli), ben spiega di come il rapporto tra scienza e vita interpelli, sempre più, le menti e le coscienze di molti. Le vicende che scandiscono la discussione sulla libertà terapeutica sono storie di corpi dolenti, fisiologie morenti tenute in vita senza possibilità di guarigione, in stati vegetativi irredimibili o incapaci (o scarsissimamente capaci) di relazione con il mondo e di espressione e rappresentazione del sé; condizioni umane in cui la vita non è più tale – non è più come l`abbiamo pensata ed esperita per secoli – e la morte, immanente ma non imminente, è una condizione sempre attuale, eppure sempre sospesa: procrastinata a data incerta. La scienza medica è giunta a un punto di evoluzione tale da poter mantenere in vita i propri pazienti, prossimi alla morte, pur nell`assenza di qualsivoglia prospettiva di regressione della loro patologia: idratati e alimentati artificialmente, talvolta sostenuti nella funzione cardiaca e assistiti in quella respiratoria da macchine sofisticate, senza il cui ausilio morirebbero immediatamente o in breve tempo, essi esistono in uno «spazio intermedio» inedito, tra vita e morte, del quale poco sappiamo. E si trovano in quella condizione, nella quasi totalità dei casi, non per propria scelta, bensì per un concorso di prassi e tecniche mediche sinora sottratto al controllo di chi le subisce (il malato, appunto); e senza che vi sia possibilità di tutela giuridica dei suoi interessi, a causa di un vuoto normativo oramai insostenibile. Il Testamento biologico, uno strumento che si rivelerebbe decisivo nel dirimere molti casi come quelli richiamati e che contribuirebbe a una riduzione della domanda di eutanasia, non è ancora legge.

L`attività parlamentare ha evidenziato, in questi anni, ampie possibilità di convergenza tra destra e sinistra, tra laici e cattolici, sui motivi ispiratori di questa materia. Ciononostante, la politica appare, nel suo complesso (fatte salve alcune iniziative individuali), in netto ritardo nell`affrontare la questione. Questo dato non può essere spiegato solamente alla luce di congiunturali difficoltà delle coalizioni; esso trova spiegazione, piuttosto, nei limiti che il legislatore incontra nel decidere su una condizione «umana, troppo umana». Ma l`idea – propria di molti oppositori del Testamento biologico – che all`origine della volontà di riduzione del dolore risieda una cultura materialista ed edonistica rimanda, singolarmente, ad un vero e proprio rovesciamento di significati. Il «principio del piacere», evocato in queste circostanze, richiama, invece, il suo contrario: ovvero l`angoscia per la morte e per quella sua forma anticipata quell`«annuncio» di essa – che è la sofferenza fisica. Un`angoscia che nessun processo di «secolarizzazione» può rimuovere, e nemmeno accantonare; e che risulta sempre più fattore di incertezza e di stress, nella vita contemporanea, perché il flusso di messaggi ricevuti e di aspettative alimentate sembra promettere, piuttosto, una crescente capacità di differimento e di controllo della morte stessa. Dunque, intorno alla categoria e all`esperienza della sofferenza – e alla conoscenza intima del dolore fisico, delle sue soglie e dei suoi abissi – si impongono oggi i più radicali dilemmi etici e le conseguenti «scelte tragiche», tra opzioni analogamente legittime e degne di tutela: e analogamente fondate su motivazioni morali. Piergiorgio Welby ci ha aiutati a guardare a quell`angoscia con più coscienza e intelligenza; e, paradossalmente e nonostante la sua morte, con più speranza.