Un rapporto compilato dalle Nazioni unite sulla salute mentale degli operatori sanitari durante la pandemia di covid-19 ha lanciato l’allarme circa l’importanza del tema e la necessità di portarlo al centro delle risposte che saranno necessarie per le fasi di recupero dalla pandemia.
In Canada, il 47% degli operatori sanitari ha segnalato una necessità di supporto psicologico; nella Repubblica popolare cinese, chi era impiegato nell’assistenza sanitaria ha riportato alti tassi di depressione (50%), ansia (45%) e insonnia (34%); in Pakistan un gran numero di lavoratori nel campo dell’assistenza sanitaria ha riferito disagio psicologico da moderato (42%) a grave (26%).
Si tratta di numeri che segnalano implicazioni e complicazioni del post-pandemia, che ancora non rientrano nelle riflessioni attorno alle misure necessarie per il futuro.
Già a metà maggio il segretario generale dell’ONU António Guterres aveva lanciato un documento politico sulla necessità di ulteriori interventi sulla salute mentale delineando tre priorità:
- Applicare un approccio coinvolgente l’intera società per promuovere, proteggere e curare la salute mentale;
- Garantire la disponibilità diffusa di sostegno alla salute mentale di emergenza e supporto psicosociale successivo;
- Sostenere il recupero da COVID-19 costruendo servizi di salute mentale per il futuro.
Tre pilastri piuttosto generici che nelle 17 pagine del documento vengono declinati nei vari settori. Purtroppo, tranne vaghi appelli alla ricerca, si tratta della ripetizione di proposte che non necessariamente tengono conto dei più recenti benefici che la scienza rende possibili perché efficaci e sicuri.
Occorrerebbe sfruttare il crescente interesse per la salute mentale per raccogliere tanto suggerimenti quanto buone pratiche, per disegnare riforme relative alla salute mentale, senza niente togliere all’auspicio onusiano di “sviluppare e finanziare l’attuazione delle strategie di riorganizzazione dei servizi nazionali che spostano l’assistenza dalle istituzioni ai servizi della comunità”.
Da qualche settimana l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha iniziato a porre il problema creando una pagina in cui si dice chiaramente: “La paura, la preoccupazione e lo stress sono normali risposte a minacce percepite o reali e, a volte, quando ci troviamo di fronte all’ incertezza o all’ignoto. Quindi è normale e comprensibile che le persone stiano vivendo con paura il contesto della pandemia di COVID-19”.
Il direttore dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha affermato che “è chiarissimo che le esigenze di salute mentale devono essere trattate come un elemento chiave della nostra risposta e del nostro recupero dalla pandemia di COVID-19″ specificando che si tratta di una “responsabilità collettiva dei governi e della società civile, con il sostegno dell’intero sistema delle Nazioni Unite”.
Da sempre le Nazioni unite indicano quanto sia fondamentale che le persone che vivono in condizioni di salute mentale deteriorata abbiano accesso continuo alle cure. Nella lista delle medicine essenziali però questa attenzione si sbilancia verso psico-farmaci di vario genere e specie ma resta rigida di fronte all’inclusione delle più recenti e incoraggianti applicazioni cliniche di nuove ricerche.
Tra gli sviluppi più promettenti ci sono quelli del Centre for Psychedelic Research fondato all’Imperial College di Londra e diretto da Robin Carhart-Harris, che si concentra sull’uso di psichedelici nella cura della salute mentale come strumenti per sondare le basi della coscienza nel cervello. Il centro studia anche il potenziale degli psichedelici per il trattamento di altre condizioni, inclusa l’anoressia, e mira a sviluppare studi clinici che potrebbero aiutare a raccogliere ulteriori evidenze con il fine di consentire l’impiego di sostanze psichedeliche in futuro.
Negli ultimi anni tanto negli USA grazie alla MAPS, quanto nel Regno unito grazie all’ex capo di Carhart-Harris, David Nutt, si sono portate avanti ricerche che segnalano che gli psichedelici avranno un grande impatto sulle neuroscienze e la psichiatria nel prossimo futuro e il Centro di Londra, assieme al suo omologo della Johns Hopkins, e naturalmente a MAPS, sono in prima linea in una delle aree più interessanti della scienza medica. La ricerca più importante dell’Imperial mira a sviluppare una terapia a base di psilocibina per arrivare a un trattamento per la depressione legalmente autorizzato .
A differenza di altre sostanze psichedeliche, lo status legale delle azioni non autorizzate con i funghi di psilocibina varia in tutto il mondo. La psilocibina (e la psilocina) sono ritenute droghe di Classe I ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sulle sostanze psicotrope del 1971, cioè “droghe” con alto potenziale di abuso o “droghe” che non hanno usi medici riconosciuti. Tuttavia, i funghi di psilocibina hanno avuto numerosi usi medicinali e religiosi in decine di culture nel corso della storia e hanno un potenziale di abuso significativamente inferiore rispetto ad altre droghe di Classe I. Grazie a insistenze del Messico il loro status di controllato speciale a livello internazionale è più flessibile.
In una lettera del 13 settembre 2001, inviata al Ministero della sanità olandese da Herbert Schaepe, l’allora segretario della Giunta Internazionale per il controllo dei narcotici delle Nazioni Unite, INCB, si chiariva che “i funghi vengono raccolti e utilizzati per i loro effetti allucinogeni. In base al diritto internazionale, nessuna pianta (intesa come materiale naturale) contenente psilocina e psilocibina è attualmente controllata ai sensi della Convenzione del 1971. Di conseguenza i preparati realizzati con queste piante non sono sotto il controllo internazionale e, pertanto, non sono soggette agli articoli della Convenzione del 1971. La loro penalizzazione viene decisa dal diritto interno”. Contrariamente ad altre sostanze, fra cui anche la cannabis contenente THC, la produzione e l’uso medico-scientifico di questi funghi potrebbe essere meno complicato.
Eppure, nessuno dei documenti adottati, o anche discussi, a livello internazionale prende in considerazione “sperimentazioni”, anche nel formato di “progetti pilota” che possano in qualche modo portare ad ampliare l’offerta terapeutica. L’OMS segnala che “qualsiasi programma per ridurre o affrontare i problemi di salute mentale creati dalla pandemia deve essere monitorato e valutato […] tale ricerca probabilmente rafforzerà gli sforzi di difesa della salute mentale. La rapida acquisizione delle conoscenze richiederà la definizione di priorità di ricerca, coordinamento della ricerca, condivisione e finanziamento di dati aperti”.
Ammesso e non concesso che tutto ciò avverrà, eventuali azioni conseguenti arriverebbero dopo aver apprezzato eventuali malfunzionamenti piuttosto che decidere di cogliere l’occasione della pandemia per “sperimentare”.
Il documento di Guterres si conclude ricordando che “l’OMS, insieme ai partner, fornisce assistenza e consulenza durante la pandemia di COVID-19 agli operatori sanitari, i gestori delle strutture sanitarie, le persone che si prendono cura dei bambini, gli anziani, le persone isolate e i membri del pubblico in generale, per aiutarci prenderci cura della nostra salute mentale” e che “Una serie di agenzie dell’ONU – tra cui ILO, IOM, UNDP, UNESCO, UNFPA, UNHCR, UNICEF, UNODC, OMS e l’Ufficio del Segretario generale per i giovani – stanno investendo risorse per rendere più centrale la salute mentale e organizzare la risposta psico-sociale per aiutare le persone a far fronte al COVID -19”. Chi vivrà vedrà, dunque.
Il 2020, che per ora è passato alla storia come l’anno della pandemia di coronavirus, è anche l’anno in cui le Nazioni unite hanno pubblicato un “commento generale sulla scienza” che delinea gli obblighi degli Stati per rendere pienamente godibile il “diritto a godere dei benefici della scienza”. La prima versione pubblicata a gennaio conteneva un intero paragrafo dedicato alla ricerca sugli psichedelici che purtroppo non è stato mantenuto nella versione finale adottata a maggio, ma questo non vuol dire che includere sviluppi promettenti nelle raccomandazioni globali non sia possibile. Anche perché negli USA diversi di questi studi, ivi compreso uno sulla psilocibina, continuano a esser autorizzati per la cura di varie condizioni di salute mentale.