La marijuana nel quadro legislativo italiano

La legge che regola la produzione e il consumo di stupefacenti e le misure per la prevenzione e il trattamento delle tossicodipendenze è il D.P.R. 309/1990, che costituisce il testo unico su cui si sono applicate numerose modifiche successive.

La legge, la cosiddetta “Iervolino-Vassalli”, dai nomi dei suoi due promotori (l’allora ministro per gli Affari Sociali Rosa Russo Iervolino, della Democrazia Cristiana, e l’allora ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, socialista) al momento della sua introduzione fu molto criticata e accusata di essere “liberticida”.

Ha poi subito, negli anni, diverse modifiche: le più importanti risalgono tutte ai primi anni Novanta.

1. La prima fu una sentenza della Corte Costituzionale del 1991, che precisava che non bastava avere una quantità di stupefacenti di poco superiore alla “dose media giornaliera” per far scattare il reato di spaccio.

2. La seconda, invece, fu un referendum abrogativo promosso dai radicali e votato nell’aprile 1993, in cui venne abolita – con il 55 per cento dei favorevoli – la sanzione del carcere per l’uso personale di droga.

L’ultima modifica, del febbraio 2006, è la legge nota come Fini-Giovanardi, ovvero il decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dall’art. 1 della legge 21 febbraio 2006, n. 49 – che dal 2006 disciplina l’uso delle sostanze stupefacenti in Italia.
Il senso della legge è molto restrittivo per quanto riguarda produzione, detenzione e consumo di sostanze psicoattive ed equipara le droghe pesanti e quelle leggere. Tra queste ultime vi è la marijuana.

La legge in questione mantiene inalterata l’impossibilità di punire penalmente il consumo, ma limita enormemente i parametri entro il quale questo viene definito. Per essere più chiari, la legge fissa un quantitativo massimo di possesso individuale, oltre il quale non si può più parlare di consumo personale ma subentra l’accusa di spaccioPer quanto riguarda la marijuana, la quantità massima consentita è di mezzo grammo.

 

Differenze tra le due leggi

La Iervolino-Vassalli stabiliva che l’uso personale di droga – sia “leggera” che “pesante” – fosse un illecito, ma prevedeva sanzioni soprattutto di tipo amministrativo: per la prima volta era previsto un avvertimento del prefetto, a cui seguivano dalla volta successiva provvedimenti (sempre del prefetto) come la sospensione della patente o del passaporto, per un massimo di tre mesi. Dopo le due volte entrava in gioco l’autorità giudiziaria, con una serie di sanzioni che arrivavano al massimo a tre mesi di carcere (fu la parte di norma abolita con il referendum del 1993).

La produzione e lo spaccio invece erano sanzionate con pene diverse e si prevedeva la reclusione: ma i periodi variavano sia in base alla distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, sia in base alla quantità coinvolta, se “modica” o più ingente. La distinzione tra “leggere” e “pesanti” era fatta in base ad apposite tabelle pubblicate dal ministero della Salute. Le pene previste per lo spaccio delle droghe leggere – diminuite nel caso della “lieve entità” – erano tra i due e i sei anni di carcere, più una multa. Per le droghe pesanti si andava invece dagli 8 ai 20 anni. Le misure alternative, anche terapeutiche, come l’affidamento in comunità, erano previste per le condanne fino a quattro anni.

La legge Fini-Giovanardi, invece, aveva abolito la distinzione tra droghe leggere e pesanti (unificando le tabelle del ministero della Salute) e aveva portato ad un inasprimento delle sanzioni. Nel caso di condanna per spaccio e traffico di stupefacenti le pene andavano da 6 a 20 anni: in concreto, la pena minima per un piccolo spacciatore di marijuana si alzava dai due ai sei anni e prevedeva dunque quasi certamente il carcere. Le quantità minime per uso personale, fissate da una commissione del ministero della Salute, erano relativamente basse: per esempio 500 milligrammi di principio attivo per la cannabis, cioè circa 5 grammi lordi. La denuncia per spaccio non era comunque automatica e lasciava al giudice margine di manovra, e anche al momento della sua introduzione ci furono polemiche tra chi sosteneva che si potesse “andare in carcere per uno spinello” e chi invece diceva che al giudice venisse lasciata troppa discrezionalità.

 

Incostituzionalità della Legge Fini-Giovanardi

Mercoledì 12 febbraio 2014 la legge Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti, che equiparava le droghe leggere a quelle pesanti, é stata bocciata e giudicata incostituzionale.

Con il testo della sentenza n. 32 la Corte Costituzionale ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge per violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, come convertito con modificazioni dall’art. 1 della legge 21 febbraio 2006, n. 49, così rimuovendo le modifiche apportate con le norme dichiarate illegittime agli articoli 73, 13 e 14 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico in materia di stupefacenti).

In estrema sintesi, la questione di legittimità era stata sollevata dalla Cassazione per violazione dell’articolo 77 della Costituzione, perché nel 2006 furono inseriti nella legge di conversione del decreto molti emendamenti che, secondo la Suprema Corte, erano estranei all’oggetto e alla finalità del testo di partenza; in altre parole, secondo i giudici remittenti, mancherebbe il nesso di interrelazione funzionale tra decreto legge e legge di conversione. Il secondo comma dell’art. 77 Cost. dispone che, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge. Evidente, nella questione sottoposta ai giudici costituzionali, la carenza del requisito della necessità ed urgenza di provvedere.

Dunque, la Corte Costituzionale non ha bocciato la Fini-Giovanardi in base al suo contenuto: la Fini-Giovanardi è stata bocciata per come è stata approvata e non per quello che stabiliva. Fu infatti inserita per la sua conversione in legge in un provvedimento che si occupava di un sacco di cose diverse (tra cui le Olimpiadi invernali!). La cosiddetta Fini-Giovanardi era, in concreto, un ampio emendamento che occupava in effetti gran parte del testo e che costituiva l’articolo 4 della legge.

 

La situazione attuale

Il vuoto normativo lasciato dalla pronuncia della Consulta ha fatto sì che tornasse in vigore nella sua interezza la legge – obsoleta – del 1990, la Iervolino-Vassalli, introdotta nel 1993. Alla vecchia normativa si aggiungono anche alcune modifiche apportate dal decreto Lorenzin:

– il testo ripristina le tabelle con la suddivisione degli stupefacenti in base agli effetti e vede inserita la marijuana di origine naturale nella tabella due, ovvero tra le droghe leggere, mentre quella sintetica è nella tabella uno, insieme a cocaina, eroina e anfetamine.

– la riduzione di pena per il piccolo spaccio a 4 anni, scelta che esclude di fatto la reclusione in carcere e reintroduce i lavori di pubblica utilità nel caso di condanna. Inoltre, il reato non distingue tra droghe leggere e droghe pesanti, ma sarà compito del giudice graduare l’entità della pena in base alla qualità e quantità della sostanza venduta.

– il riconoscimento ai detenuti del diritto di ottenere il ricalcolo delle pene sulla base della normativa così come uscita dalla sentenza della Consulta. La procedura prevista dal codice è quella dell’incidente d’esecuzione presso il giudice che ha emesso la sentenza di condanna. 

E’ ora al lavoro in Parlamento l’Intergruppo Cannabis Legale, che ha appunto lo scopo di seguire l’esempio dei paesi che per primi sono passati a un sistema di piena regolamentazione legale della produzione, vendita e consumo della cannabis, adattandone le caratteristiche al nostro contesto sociale e giuridico.


La Cannabis Terapeutica

La cannabis può essere utilizzata a scopo terapeutico, ma a quanto pare, tra gli addetti ai lavori c’è ancora molta resistenza non solo nel prescriverla, ma addirittura nel parlarne. Eppure è un decreto datato addirittura 2007 (decreto ministeriale n.98 del 28 aprile 2007) quello con cui il ministro della Salute Livia Turco riconobbe formalmente l’efficacia terapeutica del Thc, il principale principio attivo della cannabis, e di altri due farmaci analoghi di origine sintetica, il Dronabinol e il Nabilone, inseriti di diritto nella tabella II sezione B del decreto del presidente della Repubblica n. 309/90, oggi rinominata “tabella dei medicinali“, ovvero la tabella deputata ad indicare le sostanze psicotrope utilizzabili in terapie per il trattamento di alcune patologie.

Nel febbraio del 2013 un ulteriore decreto (n.33 del 2013), firmato dall’allora ministro della Salute Renato Balduzzi riconobbe la liceità dell’uso farmacologico dell’intera pianta della cannabis, ottenendo il parere favorevole dell’ISS – Istituto superiore di Sanità, del Consiglio superiore di sanità e del Dipartimento politiche antidroga della presidenza del Consiglio dei ministri. Tuttavia alle aperture del 2013 da parte di Balduzzi, hanno fatto invece eco, nel 2015, le restrizioni ad opera del Ministro Beatrice Lorenzin, la quale ha emanato un decreto che ha suscitato numerose polemiche in quanto:

  • viene appesantito il sistema burocratico per ottenere la ricetta;
  • insorgono numerosi ostacoli, per le farmacie galeniche, nella produzione di estratti poichè viene introdotto l’obbligo di esaminare ogni singolo preparato;
  • esclude diverse patologie per le quali ci sono studi scientifici accreditati e vieta di mettersi alla guida per almeno 24 ore dopo l’ultima assunzione, causando numerose difficoltà ai pazienti che ne fanno.