Eutanasia, 6 su 10 favorevoli alla “dolce morte” del malato

Andrea Tagliapietra

Fra le varie conseguenze dello sciopero della morte, immaginato dal premio Nobel per la letteratura José Saramago in uno dei suoi ultimi romanzi, c’è anche l’insostenibile sovraffollamento degli ospedali, dove i moribondi, che non sono più in grado di guarire, tuttavia non possono neppure morire,

sicché se ne stanno li sospesi, in una specie di terra di nessuno fra la vita e la morte. La medicina moderna, con le sue conoscenze, i suoi farmaci e le prodigiose macchine in grado di sostenere le funzioni vitali del corpo, può produrre, a volte, conseguenze simili a quelle inventate dalla fantasia di Saramago. Sicché, da tempo, i medici, ma anche gran parte dell’opinione pubblica e la stessa Chiesa cattolica, parlano, in questi casi, di interruzione dell’accanimento terapeutico, concordando sulla sua liceità. Allora, "si stacca la spina", come si dice con un’orribile metafora che, nata in questo contesto, ormai viene applicata fastidiosamente agli ambiti più disparati, soprattutto economici, per descrivere la decisione di por fine a qualcosa che si protrae inutilmente e dispendiosamente. Qualche giorno fa l’ha usata, a sproposito, persino un sedicente naturalista inglese della BBC per dire che dovremmo lasciar estinguere i panda, dati i costi della loro tutela e l’evidente situazione disperata della sopravvivenza nel loro ambiente naturale, ormai in gran parte distrutto. Ma i cittadini del Nordest non si sono espressi per quasi due terzi a favore semplicemente di una sospensione delle cure automatiche in pazienti privi di coscienza e, di fatto, già morti, dal momento che solo alcuni processi fisiologici dei loro corpi sono tenuti in funzione dalle procedure mediche e dalle macchine di supporto. Qui la risposta si spinge ben oltre e dice che si è a favore di un intervento del medico che attivamente aiuti a morire un paziente che, affetto da un male incurabile e provando grandi sofferenze fisiche, ne faccia esplicita richiesta. Si tratta, cioè, di essere favorevoli all’eutanasia, ossia all’azione deliberata che, con l’interruzione delle cure ma anche con l’uso di farmaci appositi come, per esempio, sovradosaggi di anestetici, fa morire repentinamente chi potrebbe vivere ancora per qualche tempo. Vedendo i risultati di questo e di altri sondaggi e, in particolare, prendendo atto delle rilevanti percentuali di favorevoli (superiori al 30%) anche fra i praticanti cattolici e fra gli elettori riconducibili a quell`area, verrebbe da chiedersi perché, invece, la maggioranza del parlamento e il mondo politico italiano in generale, esprimano, su queste tematiche – si pensi al caso di Eluana Englaro e alla questione del testamento biologico -, posizioni che appaiono molto più caute e di segno prevalentemente opposto. Ma non è mia intenzione sviluppare questo aspetto dei discorso. Mi sembra interessante riflettere, invece, su ciò che questa risposta ci dice dell’atteggiamento collettivo nei confronti della morte. Mi chiedo, cioè, se l’esigenza di decidere, come dicono in molti, della propria morte, significhi veramente essere padroni della propria morte.

Quanti, per esempio, di coloro che si dicono favorevoli all’eutanasia su se stessi e per i propri cari, avrebbero il coraggio, essendo in grado di farlo, di somministrare da sé la "dolce morte", ossia di suicidarsi, o di assistere, in analoga incombenza, la persona amata? La decisione sulla propria morte nasconde, infatti, qualora fosse legalizzata la pratica dell’eutanasia, il pieno affidamento della questione della morte al medico e alle pratiche della scienza medica. E la medicina che stabilisce la curabilità della malattia e, quindi, di riflesso la sua incurabilità, che riesce o fallisce nelle cure palliative del dolore e che, in ultima istanza, dovrebbe attuare la volontà del paziente che ha deciso per l’eutanasia. La morte viene ridotta, così, nell’immaginario, ad una sorta di istante mortale spogliato di ogni valore simbolico e ridotto al semplice fatto tecnico. Non sono "io" che muoio ma, anche se non credo in alcuna sopravvivenza extracorporea, è il mio corpo che muore e ciò che sono "io" – la mia coscienza, la mia lucidità – non verrà trascinato nel caos della carne e nell’agonia dolorosa del corpo mortale. Come già diceva Freud, in fondo, non c’è nessuno che creda alla propria morte o, ciò che equivale, che nel suo inconscio non sia convinto della propria immortalità. Ma ciò, come si può facilmente capire, non significa essere padroni della propria morte, ma semplicemente ignorarla e, con essa, ignorare e rimuovere tutti quei limiti che abbiamo in comune con gli altri esseri viventi e con lo stesso pianeta Terra, al cui destino mortale e alla cui finitezza, come per quanto avviene con il nostro corpo, crediamo inconsciamente di poter sopravvivere, continuando a crescere e a consumare all`infinito.