Considerazioni sulla Legge italiana in materia di carne coltivata

Nel quadro della procedura TRIS, che consente a tutte le organizzazioni di esprimersi, l’Associazione Luca Coscioni, insieme a Science For Democracy, ha presentato alla Commissione Europea un parere sulla legge italiana che introduce divieti in materia di carne coltivata. Entro marzo la Commissione dovrà esprimersi sulla legge, che riteniamo incompatibile col diritto europeo e con gli obblighi internazionali verso le Nazioni Unite. Di seguito il testo depositato formalmente dove spieghiamo il perché.

Irragionevolezza della nuova normativa ai sensi del regolamento europeo sui novel food

La normativa approvata sancisce il divieto di una serie di attività connesse alla carne coltivata, prima che tale alimento sia autorizzato dalla Commissione Ue, previo parere dell’EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare), ai sensi del regolamento dell’Unione europea n. 2283/2015 in materia di nuovi alimenti e ingredienti alimentari (c.d. novel food). Ciò appare evidentemente privo di ragionevolezza: la commercializzazione di tale tipologia di carne è già vietata, in base alla citata disciplina Ue, non essendo mai stata autorizzata. 


Limitazione al principio di libera circolazione

Qualora l’immissione in commercio di carne coltivata fosse autorizzata dall’Ue, ai sensi della citata disciplina sui novel food, il divieto di qualunque attività riguardante «alimenti o mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o da tessuti derivanti da animali vertebrati», disposto da parte dell’Italia, sarebbe illegittimo, poiché idoneo a ostacolare la libera circolazione delle merci, uno dei principi fondanti dell’Unione europea (art. 34 del Trattato sul funzionamento dell’Ue). 

La deroga al principio di libera circolazione può essere giustificata solo da un interesse generale di natura non economica (ad esempio, tutela della salute, ordine pubblico o pubblica sicurezza); non deve costituire una discriminazione o restrizione dissimulata; dev’essere proporzionata. Dunque, per derogare a tale principio non basta citare la tutela della salute, senza fornire una qualche ragione a fondamento, o accampare la tutela della tradizione alimentare italiana, come fa la legge in questione.


Distorsione della procedura TRIS

La procedura Tris deve avere ad oggetto un progetto di legge.

Il testo sulla carne coltivata è stato notificato alla Commissione Ue dopo la sua approvazione in Parlamento, ma prima della firma del Presidente della Repubblica, quindi quando ancora era un disegno di legge. Pertanto, la direttiva sulla procedura Tris era stata formalmente rispettata. Tuttavia, nella stessa giornata della notifica all’Ue, è intervenuta la firma del Quirinale, ultimo atto dell’iter di approvazione secondo il diritto italiano, e il disegno di legge è divenuto una legge vera e propria. Ma la direttiva vieta l’approvazione di un progetto di legge durante la procedura Tris. Di conseguenza, la Commissione Ue, nell’ambito della procedura Tris, non avrebbe titolo a pronunciarsi su un testo che è già diventato legge.

Il governo italiano ha evidentemente violato la procedura Ue.

Quest’ultima, peraltro, prevede che la bozza di legge notificata resti sospesa durante l’esame dell’Ue. Ma nel caso italiano non c’è una bozza, bensì una legge vera e propria, la sospensione della quale non è prevista né dal diritto europeo né da quello nazionale. Anche per questo motivo, la condotta dell’esecutivo italiano costituisce un’anomalia rispetto alla procedura TRIS, nonché uno strappo a quanto disposto dalla disciplina europea.


Distorsione del principio di precauzione

La legge italiana vieta preventivamente ogni utilizzo relativo alla carne coltivata in base a un presunto principio di precauzione. Tale principio, codificato nella disciplina europea espressamente richiamata nella legge (art. 7, regolamento n. 178/2002), può essere invocato quando «venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico», in quanto i dati disponibili non consentono una valutazione completa del rischio. Tale principio viene distorto dalla legge in esame, poiché declinato in termini non tanto di prove di dannosità derivante dal consumo di carne coltivata, quanto di assenza di prove sufficienti circa la sua non dannosità. Ciò è dimostrato, tra gli altri, dalla mancanza di informazioni su elementi che sarebbero centrali in un processo di valutazione del rischio: si pensi alle tipologie di carne coltivata esaminate o ai dettagli sull’ente, comitato o commissione eventualmente responsabile delle analisi.

La distorsione del principio da parte della legge italiana si pone ulteriormente in contrasto con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, secondo cui la possibilità di intervenire per evitare o contenere un danno senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità dei rischi attesi non implica che una misura restrittiva possa essere giustificata sulla base di un approccio «puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente» (CGUE, causa T-13/99, punto 143). Al contrario, una misura può essere adottata a titolo precauzionale solo nella circostanza in cui il rischio risulti adeguatamente supportato dai dati scientifici disponibili al momento dell’adozione (punto 144).

Soprattutto, il ricorso al principio di precauzione richiede che ciò su cui si appunta, un alimento in questo caso, sia effettivamente in uso, o autorizzato per l’uso, e che da ciò possano scaturire eventuali danni. Ma, come detto, la carne in vitro non è ancora utilizzabile, in quanto non autorizzata. 

A ciò si aggiunga che, qualora uno Stato dell’Ue voglia sollevare motivi di rischio sulla sicurezza di un novel food deve seguire la procedura prescritta nel citato regolamento sui nuovi alimenti (art. 15). Quest’ultimo prevede che qualunque Stato membro, entro quattro mesi dalla richiesta di immissione sul mercato, possa sollevare obiezioni debitamente motivate sulla sicurezza dell’alimento e che, di conseguenza, la Commissione instauri un apposito procedimento. Dunque, la proibizione mediante legge di un alimento in esame per l’autorizzazione si pone al di fuori di quanto previsto dal Regolamento novel food.

Infine, come affermato dalla Commissione europea nella comunicazione sul ricorso al principio di precauzione (COM(2000) 1 final, del 2 febbraio 2000), tale principio non può essere utilizzato come pretesto per azioni aventi fini protezionistici. Ma tali fini sono espressamente dichiarati nella legge che vieta la carne coltivata, ove si afferma espressamente che le relative disposizioni sono dirette, tra le altre cose, «a preservare il patrimonio agroalimentare, quale insieme di prodotti espressione del processo di evoluzione socio-economica e culturale dell’Italia, di rilevanza strategica per l’interesse nazionale».


Violazione del diritto alla scienza ai sensi dell’art. 15 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali

La legge in esame viola gli obblighi internazionali assunti dall’Italia in relazione al diritto di ogni individuo a «godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni» (“diritto alla scienza”). Tale diritto è sancito dall’art. 15 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, trattato di cui l’Italia è parte dal 1978.

Come chiarito dalle Nazioni unite nel “Commento generale” n. 25, adottato nel 2020, la piena attuazione del diritto alla scienza impone agli Stati di garantire, tra gli altri, la trasparenza e l’inclusione della società civile nel processo legislativo, la necessità di basare nuove norme su evidenze scientifiche consolidate e la cautela nel ricorso al già richiamato “principio di precauzione”: tutti aspetti con cui la legge in esame risulta in contrasto.

Innanzitutto, in sede di dibattito parlamentare, la limitazione delle audizioni di studiosi e ricercatori alla sola partecipazione in forma scritta ha escluso la possibilità di instaurare un dialogo con la comunità scientifica attiva in Italia sui temi oggetto del provvedimento. Di conseguenza, la legge è stata approvata senza alcun adeguato confronto con esperti del settore circa i potenziali effetti della produzione e del consumo della carne coltivata per la salute umana e la salvaguardia dell’ambiente.

Inoltre, il carattere opaco di alcune delle procedure adottate dal governo, come il ritiro della prima notifica del ddl n. 651 alla Commissione europea, unitamente alla mancanza di iniziative istituzionali volte a favorire un dialogo ad hoc con la società civile, si sono tradotte nell’effettiva imposizione di una misura legislativa priva di un necessario e adeguato coinvolgimento del pubblico, in violazione del diritto di ogni individuo a essere propriamente informato sulle misure che avranno un impatto sulla propria sfera sociale, politica, economica e culturale. 

Si pensi, a questo riguardo, agli effetti indiretti della legge in esame sulla libertà di ricerca scientifica in Italia. Il provvedimento non vieta la ricerca in materia di carne coltivata. Ma è ragionevole ipotizzare che la proibizione di consumo e commercio della carne coltivata, nonché la mole delle sanzioni a fronte della violazione dei divieti previsti, comporterà la conseguenza di disincentivare investimenti in ricerca e innovazione nell’industria e nel mondo accademico. Tali effetti si tradurrebbero in uno svantaggio competitivo degli scienziati italiani rispetto a chi, in altri paesi europei, può e potrà condurre studi in materia senza l’imposizione di ostacoli irragionevoli e sproporzionati da parte del legislatore interno.

La legge risulta pertanto in contrasto con l’obbligo dello Stato di garantire un processo legislativo partecipato e trasparente nel rispetto del diritto alla scienza. Inoltre, la mancanza di un adeguato confronto tra istituzioni e società civile ha evidenti ricadute sulla (in)fondatezza scientifica dei contenuti della legge, con conseguente violazione dell’obbligo di assicurare che il diritto interno rifletta i dati disponibili più aggiornati. Prova ne è, tra gli altri, la mancata giustificazione della esclusione di alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti attraverso l’uso di cellule e tessuti di animali invertebrati dall’ambito di applicazione del divieto.

Infine, per le Nazioni unite, il principio di precauzione non può essere applicato prima che le ricerche avvengano e in alcun modo può esser previsto con durata irragionevole. Esattamente l’opposto di quanto fa la legge italiana. Secondo il Commento generale, specialmente nei casi controversi, l’obbligo di garantire la partecipazione e la trasparenza nei processi decisionali rileva non solo allo scopo di fornire ai cittadini gli strumenti necessari per comprendere i rischi e il potenziale di alcuni studi scientifici, ma anche a quello di creare condizioni favorevoli a un controllo pubblico sulle misure adottate a scopo precauzionale in rapporto al livello di accettazione del rischio. 

La legge in esame non risulta conforme a tale obbligo. La mancanza di informazioni sul bilanciamento tra i rischi e i benefici derivanti dalla produzione, dal consumo e dal commercio della carne coltivata impedisce infatti di conoscere le basi giustificative del divieto e di valutare, di conseguenza, l’adeguatezza della misura precauzionale adottata. Tanto più se il divieto viene letto alla luce degli studi scientifici condotti in seno alle Nazioni unite, all’Unione europea e a enti regolatori specializzati dai quali emergono elementi a sostegno della sicurezza delle tecniche adottate in laboratorio, in tale ambito.