Piergiorgio Welby era affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo, clinicamente diagnosticato quale “distrofia fascioscapolomerale”.
La sua sopravvivenza era assicurata esclusivamente per mezzo del respiratore automatico al quale era stato collegato sin dall’anno 1997.
I trattamenti sanitari praticati sulla sua persona non erano in grado di arrestare in alcun modo il decorso della malattia avendo quindi quale unico scopo, quello di differire nel tempo l’ineludibile e certo esito infausto, semplicemente prolungando le funzioni essenziali alla sopravvivenza biologica ed il gravissimo stato patologico in cui Welby versava.
Welby, in considerazione del suo grave e sofferto stato di malattia, in fase irreversibilmente terminale, dopo essere stato debitamente informato dai propri medici in ordine ai vari stadi di evoluzione della sua patologia, nonché in merito ai trattamenti sanitari che gli venivano somministrati, chiedeva al medico dal quale era professionalmente assistito, di non essere ulteriormente sottoposto alle terapie di sostentamento che erano in atto e di ricevere assistenza solamente per lenire le sofferenze fisiche.
In particolare, Welby chiedeva che si procedesse al distacco dell’apparecchio di ventilazione, sotto sedazione.
Tuttavia, il medico opponeva un rifiuto alla richiesta di Welby, assumendo di non poter dar seguito alla volontà espressa dal paziente, in considerazione degli obblighi ai quali si riteneva astretto.
Di talché, dopo una lettera al Presidente della Repubblica, Welby si vedeva costretto a rivolgersi alla magistratura, attraverso un ricorso d’urgenza, ex art. 669 ter e 700 c.p.c., volto ad ottenere il distacco del respiratore artificiale sotto sedazione terminale.
Nel ricorso i legali di Welby basavano la richiesta sul rifiuto delle cure, fondato sull’articolo 32 della Costituzione italiana e sul diritto di autodeterminazione dell’individuo pure riconosciuto dall’art. 13 della Carta Costituzionale.
Caso Welby
Il giudice, con ordinanza depositata il 16 dicembre 2006, dichiarava il ricorso di Welby inammissibile, riconoscendo tuttavia l’esistenza di un diritto soggettivo, garantito dall’articolo 32 della Costituzione, di richiedere l’interruzione della terapia medica anche se, contrariamente a quanto riconosciuto, lo riteneva privo di tutela giuridica.
Mancava, secondo il giudice, nel sistema giuridico italiano una normativa specifica atta a regolamentare le decisioni di fine vita in un contesto clinico.
Sentenza Welby
Tant’è che la Procura della Repubblica di Roma, titolare di azione diretta nel procedimento civile instaurato da piergiorgio Welby, proponeva reclamo avverso la decisione del Tribunale civile di Roma perché “affetta da una palese contraddizione“.
Ed invero, secondo la Procura “il vizio logico dell’ordinanza” consisteva nel fatto che il giudice “dalla premessa (corretta) secondo cui nel nostro ordinamento esiste un divieto di accanimento terapeutico ed un correlativo diritto di pretenderne la cessazione, perviene a una conclusione (del tutto erronea) per cui questo diritto non può essere tutelato a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuative” (…).
A tal riguardo la Procura affermava “il diritto soggettivo o esiste o non esiste: se esiste, non potrà non essere tutelato, incorrendo altrimenti l’organo di giustizia in un inammissibile non liquet, con effetto di lasciar senza risposta una pretesa, giuridicamente riconosciuta alla stregua di fondamentali principiindicati dallo stesso Giudice nel provvedimento impugnato“.
Dispone in tal senso l’art. 2 Cost. (“tutti possono agire in giudizio per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi“) (…) “Peraltro, sovente è lo stesso legislatore a lasciare alla giurisprudenza la specificazione del diritto, soprattutto con riguardo alla protezione di beni soggetti a cambiamenti dipendenti da fattori esterni, per la capacità della giurisprudenza di adattare alle situazioni concrete ai principi di base rinvenibili nella Costituzione o nei principi fondamentali, ovvero nei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario o dagli obblighi internazionali“.
Nel frattempo Welby, più che certo dell’esistenza del suo diritto all’autodeterminazione, e data l’impossibilità di staccare il respiratore con l’assenso del giudice, decideva di proseguire nel suo intento, avendo trovato un medico anestesista disponibile a venir incontro alle sue esigenze. E difatti, il dott. Mario Riccio si recava presso l’abitazione di Welby il giorno 18 dicembre 2006 per accertare l’evoluzione della patologia e per raccogliere la volontà del paziente che confermava, ancora una volta, di voler essere sedato e staccato dal respiratore artificiale.
Due giorni dopo il medico chiedeva a Welby per l’ennesima ed ultima volta la conferma della sua volontà, quindi, ottenuta la conferma, procedeva prima alla sedazione del paziente e, subito dopo, al distacco del ventilatore automatico.
La morte, come afferma il referto medico-legale, sopraggiungeva nell’arco di mezz’ora, per arresto cardiocircolatorio dovuto ad una irreversibile insufficienza respiratoria, da attribuire unicamente alla impossibilità di Welby di ventilare meccanicamente in maniera spontanea, a causa della gravissima distrofia muscolare da cui lo stesso era affetto.
E’ proprio dopo la morte di Welby che si apre la fase cruciale relativa al ricnoscimento del diritto in questione.
Attesa la legislazione esaminata e il parere contrario alla magistratura, tutto faceva ritenere che il dott. Riccio sarebbe stato condannato.
Tuttavia, il primo procedimento che si apre sulla condotta del medico è quello dell’Ordine dei medici di Cremona, a cui Riccio appartiene; gli elementi presi in considerazione sono due, da un lato la volontà “chiara, decisa e non equivocabile” del paziente “perfettamente in grado di intendere e volere e di esprimersi” e “pienamente consapevole della conseguenza del sopraggiungere della morte”; dall’altro il fatto che l’anestesista “non ha somministrato farmaci o altre sostanze atte a determinare la morte” e che la sedazione terminale è risultata “per posologia di farmaci, modalità e tempi di somministrazione, in linea con i normali protocolli”.
Per questi motivi la Commissione disciplinare dell’ordine dei medici di Cremona dispone l’archiviazione del caso, tramite un provvedimento datato 1 febbraio 2007.
Nel secondo procedimento, in sede penale, la Procura della Repubblica di Roma giunge ad un esito molto simile a quello dell’ordine dei medici, con richiesta di archiviazione del caso.
La conclusione si basa sull’esito della consulenza medicolegale, che esclude qualsiasi nesso tra la sedazione ed il decesso del paziente, indicando quale unica causa di morte l’insufficienza respiratoria relativa alla malattia.
Tuttavia, la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura viene rigettata dal giudice per le indagini preliminari di Roma che richiede il rinvio a giudizio per il medico Riccio, colpevole, secondo il GIP, di aver commesso il reato di omicidio del consenziente, previsto dall’articolo 579 del codice penale.
Il procedimento, tuttavia, si conclude nel luglio 2007 con una sentenza di non luogo a procedere nei confronti del medico; in effetti, il giudice per l’udienza preliminare di Roma, attenendosi al dettato costituzionale, mette in luce che nell’ordinamento italiano “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge“, richiamando, peraltro, l’art. 13 Cost., secondo il quale “la libertà personale è inviolabile“, desumendo da ciò il diritto all’autodeterminazione del paziente e sovvertendo le motivazioni del GIP, sottolineando che la gerarchia delle fonti del diritto contempla, comunaue, la prevalenza della Carta costituzionale, ovvero di un dettato improntato al rispetto della volontà del paziente e al diritto a disporre del proprio corpo, anche attraverso il rifiuto delle cure mediche.
La sentenza di assoluzione afferma, inoltre, che il diritto al rifiuto delle cure è confermato anche dall’articolo 5 della Convenzione di Oviedo che, “sebbene non ancora in vigore nel nostro ordinamento, vale comunque quale criterio interpretativo per il giudice, in quanto enuncia principi conformi alla nostra Costituzione“.
Il giudice penale, al contrario di quello civile che rifiutò l’istanza di Welby, ex art. 700 c.p.c., mette in luce, inoltre, che, sì, non esiste legislazione in materia, vi è un dettato costituzionale, peraltro interpretato dalla Corte attraverso una giurisprudenza costante. E’, dunque, in questa fase che viene in rilievo, quale causa giustificativa dell’assoluzione, la giurisprudenza della Consulta, in particolare le pronunce nn. 45/65, 161/85, 471/90, 238/96, nelle quali si afferma che il diritto al rifiuto delle cure è un “diritto inviolabile della persona, immediatamente percettivo ed efficace nel nostro ordinamento, rientrante tra i valori supremi tutelati a favore dell’individuo“.
Il giudice riconosce, come da richiesta di rinvio a giudizio, che il comportamento del dott. Riccio rientra nella norma che punisce l’omicidio del consenziente (art. 579 del codice penale), ma osserva, altresì, che la condotta del medico si è realizzata nel contesto di una relazione terapeutica e, quindi, sotto la copertura costituzionale del diritto del paziente di rifiutare trattamenti sanitari non voluti.
Per tali motivazioni, il dott. Riccio risultava non perseguibile, secondo la sentenza, perché ha adempiuto ad un dovere e, in quanto tale, rientrava nella causa di non punibilità, così come stabilisce l’articolo 51 del codice penale.
Il caso Welby mette in luce degli elementi fondamentali, poiché, da un lato, nell’iter giudiziario del caso, si nota come un magistrato abbia chiaramente messo in luce l’innegabile vuoto normativo dell’ordinamento italiano; dall’altro, la sentenza che assolve il medico evidenzia l’esistenza del diritto a rifiutare le cure mediche, poichè esso non ha bisogno di una norma, è direttamente operativo in quanto diritto costituzionalmente garantito.
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